venerdì 28 agosto 2009

Non c'è più religione...o forse si...


Miracolo ad Anversa, dove il Belgio degli "italiani" Dimitri Lauwers e Sam Van Rossom, di Axel Hervelle e DJ Ilunga Mbenga sconfigge "les Bleus" per 70 - 66. C'erano una volta le gerarchie... L'Italia non ha nemmeno di che mangiarsi le mani perchè semplicemente è giusto così... E' giusto che all'Europeo in Polonia (al posto nostro) ci vadano squadre come la Macedonia e la Bulgaria, le quali meritano tutto il rispetto di questo mondo ma fino ad un paio di anni fa erano difficilmente scovabili ad occhio nudo sulla mappa del basket continentale d'elite... E' giusto che chi ha saputo programmare, adattarsi e crescere (vedi ovviamente la Spagna), in questi anni abbia raccolto, stia raccogliendo e raccoglierà i frutti sperati, quelli più pregiati... E' giusto, da sempre, che venga prima il gruppo che non i singoli; che l'atletone non sia necessariamente più utile dell' "operaio del parquet"... E' giusto che uno come Lauwers diventi "idolo" anche solo per qualche minuto, ora, giorno dopo la commovente bomba segnata sul 67-66 a spiccioli dalla fine... E' giusto cambiare quando ormai si è constatato che il giocattolo non funziona più: per ricostruirlo bisogna prestare attenzione anche al minimo particolare, si deve fare un'analisi attenta del problema e scegliere ciò che è meglio per l' "oggetto", non per il "soggetto"... Resta la speranza come sempre, ma intanto inziamo ad alimentarla con i fatti...
P.S. La Francia ora deve vincere in "casa" con uno scarto di almeno 5 punti per conquistare l'ultimo pass per l'Eurobasket...Più probabile che ce la faccia che non il contrario, ma intanto onore al Belgio e all'esempio di grande cuore che stanno dando... I Love This Game...

giovedì 27 agosto 2009

Eurolega 2009/2010


Al tempo dei grandi filosofi greci, Atene era considerata il crocevia e fulcro del mondo conosciuto; oggi non è più esattamente così ma se vuoi vincere l’Eurolega, di lì stai pur certo che devi passare. Si inizia da dove ci eravamo lasciati al termine della scorsa stagione, cioè con Zelimir Obradovic e i verdi del Panathinaikos ad alzare l’ambito trofeo targato “devotion”. Poco è cambiato in un roster già quasi illimitato: le uniche partenze di Dusan Kecman, Nikos Chatzivrettas e Dusan Sakota (oltre al ritiro già noto da tempo ma ora ufficiale del grande Fragiskos Alvertis) sono state rimpiazzate senza troppi fuochi d’artificio ma con la consapevolezza che un anno in più di amalgama per questa squadra può bastare per dar vita ad uno storico “back-to-back”. Le acquisizioni vere e proprie sono state due e rispondono ai nomi, assai intriganti, di Nick Calathes (play/guardia dell’ 89’, mezzo greco e mezzo americano proveniente da Florida University) e Milenko Tepic (ala piccola serba di enorme classe, prelevata dal Partizan Belgrado); inoltre, Obradovic ha chiamato alla sua corte un ulteriore prospetto greco, il ventenne Giorgos Bogris, un 2.08 ex Ilisiakos e nel giro delle nazionali giovanili già da qualche anno. Il mercato non è comunque ancora chiuso e un colpo a sorpresa del Pana non è da escludere; intanto però se si sfoglia la rosa e si leggono i nomi di Jasikevicius, Spanoulis (MVP della passata Eurolega), Diamantidis, Nicholas, Fotsis, Perperoglu (atteso ad un’annata esplosiva), Pekovic (idem come sopra) e Batiste, l’idea che dal Pireo bisognerà ripassare, presto o tardi, permane.


Anche solo spostandosi di qualche chilometro, perché tra le favorite ci sono pure i “cugini” dell’Olympiakos che, di norma, in estate tendono a fare le cose in grande. Ad oggi le uniche conferme certe sono quelle di Ioannis Bourousis, centro in fenomenale ascesa che pare aver resistito alle sirene Nba, e Andreas Glyniadakis; la situazione dei vari Childress, Papaloukas, Vujcic, Teodosic, Halperim, Erceg (Panellinios ?) e Schortsianitis invece crea molti grattacapi, ma il tempo delle decisioni sta arrivando. Coach Yannakis tuttavia non ha troppi motivi per lamentarsi, viste le news di mercato riguardanti i biancorossi ateniesi: in linea diretta dal campionato pro statunitense sono infatti giunti Linas Kleiza (alona tiratrice lituana da Denver) e Von Wafer (protagonista lo scorso anno con la canotta degli Houston Rockets); da Malaga invece proviene l’atletica guardia/ala eritrea Thomas Kelati; infine c’è da constatare il “ritorno a casa” di Lukas Mavrokefalidis (ex Roma) e soprattutto l’interessante acquisto di Patrick Beverley, play classe 1988 che nella scorsa stagione ha scelto di saltare i restanti anni di college ad Arkansas per giocare al Dnipro, team ucraino non troppo rinomato. E’ comunque piuttosto ovvio che dalle prossime scelte del GM dipenderanno le sorti della squadra, in quanto non facile resta sopperire a partenze del livello di Lynn Greer (accasatosi al Fenerbahce Ulker), Giorgos Printezis (Malaga) e forse i nomi di cui sopra, mentre un po’ meno a quelle di Michalis Pelekanos (Maroussi), Devin Smith (Panellinios) e Jannero Pargo (Chicago Bulls).


Le cessioni e partenze hanno insolitamente caratterizzato anche i movimenti di mercato dell’altra finalista di maggio, il Cska Mosca. Impossibile non cominciare dai saluti ad Ettore Messina e David Vanterpool , con la panchina di conseguenza affidata al figliol prodigo Eugeny Pashutin, da una vita nella capitale russa. La città del Cremlino ha poi accolto dall’Unics Kazan il centro classe ’85 Dimitriy Sokolov e il ritorno di Anton Ponkrashov (play/guardia di 2 metri) e Nikita Kourbanov. Rumors di mercato sembrano non essercene e così vanno constatati gli addii ad Erazem Lorbek (l’ex Treviso e Roma, finito agli ambiziosi rivali del Barça), Terrence Morris (che farà compagnia a Lorbek in Catalogna) e Nikos Zizis (nuovo cambio di Terrell McIntyre a Siena). I punti fermi sono sempre gli stessi (Holden, Siskauskas, Langdon, Khryapa, Kaun, Planinic), compreso Smodis cui l’offerta del Real ha dato solo stimoli in più, ma per la prima volta negli ultimi tempi, la corazzata russa (a meno dell’esplosione definitiva di uno o più dei suoi talenti, leggasi Shved, Zabelin e Vorontsevich) sembra partire dai blocchi non con i favori del pronostico e questo, c’è da fidarsi, è un evento.


Tra le papabili alla vittoria ci sono poi necessariamente le spagnole, di cui si è trattato a fondo all’interno del mercato spagnolo. L’unica novità pare proprio essere l’ufficializzazione della cessione di Ricky Rubio al Barcellona, costretto a versare alla Joventut Badalona circa 3.7 milioni di euro di buyot. Il contratto, ricchissimo, legherebbe dunque il giovane fenomeno per 5 o 6 stagioni al club catalano con la clausola dell’ “Nba escape” dopo due: quello che si dice un colpo a sensazione.


Colpi del genere sono però stati messi a segno anche in terra turca. Fenerbahçe ed Efes Pilsen stanno difatti cercando di riportare nell’elite del basket la città di Isanbul e per farlo non hanno badato a spese. I giallo neri dell’Ulker hanno affidato il back court del quintetto alla coppia Lynn Greer – Tarence Kinsey (volto già noto da quelle parti, prelevato dai Cleveland Cavaliers) che affiancheranno conferme importanti come quelle di Gordan Giricek (ex Utah Jazz), Emir Predzlic (scelto al draft Nba ma voglioso di esplodere prima in Europa), Damir Mrsic, Mirsad Turckan (ex Siena) e Oguz Savas ma soprattutto il ritorno (ancora da ufficializzare, ma certo) di Will Solomon, idolo . Le partenze dei non molto rimpianti Marques Green e Devin Smith sono quindi state rimpiazzate nel migliore dei modi e per Tanjevic ci sarà sì molto lavoro da fare per trovare la giusta chimica, ma anche tanto da divertirsi.


Non da meno è risultata la off-season dell’Efes di coach Ergin Ataman, cui la dirigenza ha regalato pezzi pregiati del mercato europeo: Igor Rakocevic (favoloso bomber serbo proveniente dal Tau Vitoria), Bostjan “Boki” Nachbar (talentuosa ala slovena ex Treviso e New Jersey Nets, l’anno scorso in forza alla Dinamo Mosca in una stagione però disgraziata per il club russo) e Mario Kasun (possente centro ex Barcellona, atteso ad un salto di qualità netto, visti i problemi di continuità e concentrazione degli anni passati). Tre “surplus” per una formazione solida, lunga e dalle notevoli possibilità offensive. Il presidente Tuncay Ozilhan ha infatti dato fiducia a tanti dei suoi pupilli che la stagione scorsa gli hanno permesso di aggiungere in bacheca la coppa turca e il campionato: il trio U.S.A. di vecchia conoscenza, Charles Smith (il “Ragno” ex Pesaro e Virtus), Bootsy Thornton (ex Cantù e Siena) e Preston Shumpert (non illuminante alla Fortitudo); l’estroso Ender Arslan e l’ex Besiktas Sinan Guler; per finire lo zoccolo duro della squadra composto dai due Kerem (Tunceri e Gonlum) più il 2.07 Kaya Peker. Insomma, un roster da urlo per i campioni uscenti della Lega turca cui però, nella prossima annata, il bis in patria non basta più.


Siamo in dirittura d’arrivo nella lista tra le pretendenti al titolo di Eurolega e ne rimangono probabilmente ancora due: il Maccabi Tel Aviv (come sempre impossibile da escludere) e il Montepaschi Siena. Gli israeliani sembrano non essersi ancora ripresi dalla partenza di Sarunas Jasikevicius datata 2005 e per l’ennesima volta la squadra è stata rivoltata “come un frittatone” (Paola Ellisse docet). “As usual” ogni settembre si ricomincia dal capitano Derrick Sharp, inossidabile più che mai; al suo fianco ancora Yaniv Green (prossima bandiera designata della società), Raviv Limonad, D’Or Fischer (centro vicino alla Scavolini lo scorso mercato) e l’ex bolognese (entrambe le sponde) David Bluthental. Da qui in poi solo volti nuovi. Come quello meno conosciuto di Guy Pnini (classe ’83, si è fatto tutta la trafila di nazionali giovanili prima di mettere il naso anche in quella maggiore); poi ex italiani con alterne fortune come Andrew Wisniewski (ex Udine) e Alan Anderson (ex Virtussino); l’elettrico gabonese Stephane Lasme (brillante con la casacca bianconera del Partizan); il polacco Maciej Lampe (ex Phoenix Suns e Khimki Mosca) e “last but not least” un MVP, cioè Charles “Chuck” Eidson, ala mancina statunitense vincitrice dell’ultima Eurocup (disputatasi a Torino) con la casacca del Lietuvos Rytas, proprio contro il Khimki del suo nuovo compagno di squadra Lampe. L’obiettivo è dunque sempre il “grande slam” ma molti sono i dubbi che aleggiano intorno alla Nokia Arena: Wisnieski è in grado di competere ai massimi livelli? Alan Anderson ricorderà ogni sera di essere un grande realizzatore? Lasme, Lampe ed Eidson riusciranno a ripetere le gesta di Belgrado, Mosca e Vilnius in una piazza così ambiziosa? Dalle risposte a questi quesiti verrà certamente fuori il Maccabi “croce o delizia” versione 2009/2020.


Non resta che Siena. Da italiani siamo di parte ma le credenzialità per poter strappare il titolo alle grandi società multimilionarie d’Europa ci sono tutte. La gestione del club da parte di Minucci e Pianigiani è ogni volta di più strategica e attenta ad ogni minimo particolare o cambiamento. Gli addii sono stati infatti fronteggiati con acquisti di assoluto rilievo e che compensassero al meglio il vuoto lasciato: fuori Morris Finley e il suo rendimento altalenante, dentro Nikos Zizis (ex Benetton e Cska) e le sue caratteristiche da metronomo; fuori Kaukenas (impareggiabile l’offerta del “Paperone” Real Madrid), dentro la classe e la potenza dell’ex milanese David Hawkins. L’aggiunta di Denis Marconato per il precampionato con sottointeso un “poi vedremo…”, le conferme non cosi scontate di K. Lavrinovic e McIntyre… Ogni cosa è calcolata ed è sulla programmazione che Siena ha costruito il suo dominio in Italia e forse, in un futuro prossimo, anche in Europa.

mercoledì 26 agosto 2009

No Michael, no...


Una notizia, un lampo. Espn comunica che Michael Beasley, alona ventenne dei Miami Heat, è in riabilitazione all’interno di una clinica a Houston. Alcool? No. Droga? In buona parte, perché con la marjuana il rapporto era già consolidato. In realtà il problema è più profondo e si aggira nei meandri psicologi del ragazzo ex Kansas State. Non è la prima volta però che Michael da segni di instabilità: nell’annata trascorsa in zona South Beach qualcuno già si era accorto di alcune tendenze caratteriali non proprio nella norma e nello spogliatoio il suo nome non figurava certo tra i top in quanto a simpatia. Quello sguardo poi… occhi spenti, stessa perenne espressione facciale, ma non vai mai a pensare che un giocatore Nba possa avere seri problemi psicologici. “Dai Mike, fattela una risata” devono anche avergli detto. Ma qualcosa non va e una sua frase comparsa su Twitter fa addirittura spavento, “Feelin like it's not worth livin!!!!!!! I'm done”. Dai Mike, hai tutto…

Come tutto aveva Eddie Griffin, il “Grifone”, ala di 2.08 dall’incredibile talento che dopo un anno alla Seton Hall University andò a giocarsi le sue carte Nba con Houston e Minnesota. Prima e in mezzo però, un mare di problemi: rissa alla High School con uno studente, attriti anche al college e quindi il problema dell’alcoolismo che nel 2003 lo confina in una clinica specializzata. Arriva anche la prigione a causa di un’aggressione alla ex fidanzata, ciononostante i Timberwolves gli offrono un contratto e le “cure” di Kevin Garnett. Primo anno super, secondo infernale: tornano i problemi mentali, di concentrazione, la vita di Eddie ricomincia il suo percorso labirintico. Coach Saunders non crede in un suo pieno recupero e così prima dell’estate 2007 l’ex talento di Roman Catholic HS viene tagliato. Di lui non si sente più parlare. Poi anche qui come sopra, basta un flash: il 17 agosto 2007 Eddie Griffin muore schiantandosi con la sua macchina contro un treno. Nessun segno di frenata, uno stop non rispettato, una scelta volontaria, ma i “perché?” restano. R.I.P.

Michael non scherzare, non ne vale la pena…

martedì 25 agosto 2009

Spain 2009/2010



Crisi o non crisi, il mercato dei giocatori è sempre uno dei periodi più divertenti dell’anno (soprattutto per chi osserva da fuori). I botti della passata stagione, da Childress a Delfino passando per Jennings e Jannero Pargo, sono già dimenticati (alcuni ben volentieri e altri meno), ma se il profilo scelto quest’anno è leggermente più basso, ciò non toglie che di colpi estivi ce ne siano stati comunque regalati in buon numero. A cominciare dalla Spagna.



Il primo è senza dubbio Ettore Messina, accasatosi al Real Madrid per le prossime tre annate. Il presidente Florentino Perez, dopo le follie calcistiche, ha pensato anche che la sezione basketball madrilena potesse necessitare di una sistematina e partire con il miglior allenatore europeo (Obradovic permettendo) in circolazione seduto sul pino, è il miglior fondamento per costruire una struttura vincente a breve.


Al primo tassello però se ne sono aggiunti altri: dai più recenti innesti di Garbajosa, Prigioni e Vidal, a quelli già più noti di Kaukenas, Darius Lavrinovic, Velickovic e Travis Hansen, senza dimenticare le conferme di F. Reyes e Bullock. Dire che i “blancos” puntino in alto è scontato, tuttavia c’è il rischio per il nostro Ettore che i favoriti, non solo in Eurolega ma anche in Acb, siano altri.



Un esempio può essere il Regal Barcellona di Gianluca Basile (fresco di rinnovo), proprio i vincitori dell’ultimo campionato spagnolo cui un’ “ultima ora” accosterebbe anche il nome a sensazione di Ricky Rubio tra i possibili arrivi. La decisione della dirigenza blaugrana è stata quella di puntare su innesti importanti ma che non scalfissero la chimica creatasi all’interno della “vecchia guardia”: i vari Lakovic, Navarro, Vazquez, Grimau e Trias saranno infatti affiancati da giocatori del calibro di Erazem Lorbek (altra uscita da casa CSKA), Terrence Morris, Boniface Ndong e Pete Mickeal, gente abituata a vincere e che avrà comunque l’arduo compito di non far rimpiangere le partenze di Ilyasova (Milwaukee Bucks) e Andersen (Houston Rockets).



In Spagna c’è però almeno un’altra compagine che può ambire alla conquista del “jackpot”: il Caja Laboral, meglio noto come Tau Vitoria, di Dusko Ivanovic. Se gli acquisti di Malaga (T. Dean, ex Biella e Casale, Joel Freeland, Printezis, ex Olympiakos, e G.Rubio) non sembrano poter reggere il confronto con le regine del mercato, quelli dei baschi sono come al solito di grande livello e sostanza. Tuttavia il rischio, ben presente, è che il rapporto tra livello delle cessioni e degli acquisti non sia alla pari, ma anzi in negativo. D’altronde è arduo vedersi costretti a salutare alcuni top players come Rakocevic (Efes Pilsen), Prigioni (insieme a S. Vidal al Real, in cambio di Brad Oleson), Mickeal (Barça) e McDonald (Gran Canaria). “Business” lo chiamano negli U.S.A. I dirigenti del Caja non sono però rimasti sprovvisti di idee: i prossimi idoli della “Fernando Buesa Arena” saranno infatti l’ex Fortitudo Huertas (il maggior punto interrogativo per Ivanovic), il talentuoso Pau Ribas (da Badalona), il già citato Oleson e infine tre giocatori chiave da cui passeranno molte delle fortune di squadra, cioè C. English, W. Herrmann e Lior Eliyahu (dal Maccabi). A questi si aggiungono i confermati e due come Teletovic e Splitter è sempre meglio averli dalla propria parte, anche se dovranno vedere il mondo con occhi diversi da quelli passati, causa la partenza di Prigioni e dei suoi assist.



Dunque apparentemente non un grandissimo equilibrio al vertice ma di certo dalla posizione numero tre/quattro in giù le cose si fanno più incerte. Attesa ad una “prova di forza” sarà la Joventut Badalona che perso ormai quasi sicuramente Rubio, ha detto “ciao” anche a D. Mallet, Pau Ribas, Simas Jasaitis e J. Moiso. I sostituti paiono però eccellenti: Eyenga (in gran spolvero alla Summer League di Las Vegas), l’ex Udine Kristaps Valters ad alternarsi in regia con M. Fernandez, il talento di Uros Tripkovic, l’atletismo del francese Koffi e soprattutto l’enorme classe e capacità realizzativi di Clay Tucker (ex Teramo e Khimki) potrebbero essere sufficienti per fare anche meglio del campionato trascorso. Come ogni anno, a Badalona c’è di che divertirsi.


Buoni passi in avanti sembrano averli compiuti pure il Gran Canaria dei volti nuovi Jaycee Carroll (un altro po’ di Teramo nella penisola iberica) e Will McDonald (dal Tau per fare la differenza) e l’eterna incompiuta Valencia che ha optato per l’estro di Nando De Colo e l’atletismo di R. Marshall da affiancare ai vari Kuqo e F. Pietrus, sperando di aver pescato finalmente i jolly giusti dopo anni di grandi spese e grandi delusioni. E’ proprio il livello medio della Liga che sembra comunque essersi innalzato, con tante formazioni di notevole interesse. Il Bilbao delle numerose ri-conferme (Blums, Seibutis, Markota), di qualche ritorno (il giovane Pappas) e degli acquisti “di concretezza” (Warren, ex Avellino, Mumbrù e Moiso); Granada che ha affidato la regia a Rannikko e crede nella crescita di alcuni giovani, tra i quali Pablo Aguilar; il Cajasol del neo coach Joan Plaza (ex Real), speranzoso di aver trovato in Maurice Ager (ex New Jersey Nets) e Earl Calloway una coppia cinque stelle extralusso; l’Estudiantes Madrid che ha rinunciato a Iturbe e Martin Rancik ma ha pescato dal sommerso Nba Blake Ahern e investito molto sull’ex Cajasol Nick Caner-Madley; il San Sebastian di A. Barbour, Ignerski e la grande speranza Albert Miralles (ex canturino); infine il Fuenlabrada che punterà tutto sul trio C. Thomas (ex Murcia)- Gerald Fitch (anche lui come Miralles, indimenticato a Cantù)- Esteban Batista, la “bestia” uruguaiana vista anche al Maccabi.



A completare il quadro ci sono altre cinque squadre, ognuna come al solito desiderosa di rivelarsi vera e propria sorpresa dell’anno. Murcia del neo-acquisto Milos Vujanic (ma roster ancora tutto da definire); Alicante,pieno di vecchie conoscenze italiane (M. Katelynas, Mario Stoijc e Mario Austin, V. Avdalovic e Kyle Hill); Valladolid con le chiavi in mano a Brian Chase; il Manresa con le novità A. Nivins (dalla Saint Joseph University) e S. Gladyr (MBC Mykolaiv, Ucraina); e “last but not least”, l’Obradoiro di Santiago de Compostela, che ha fatto le cose in grande viste le prese di J. Akindele (lo scorso anno a Pesaro), Drago Pasalic, Nenad Djedovic e Kostas Vasileiadis, cui forse si aggiungerà anche Vlado Ilievski.



lunedì 24 agosto 2009

Intervista a Giancarlo Ferrero [17/03/09]

Il basket in Italia è considerato effettivamente come il secondo sport di squadra (dopo il calcio) sia per importanza che numericamente, anche se ad analizzare il quantitativo di informazioni fornite dai mass media questo non si direbbe affatto. Ma se chiedete ad uno dei giovani emergenti dell’intero panorama cestistico nazionale, Giancarlo Ferrero, quale sia la sua ideale classifica degli sport prediletti, dal primo all’ultimo posto ci trovate solamente quello che prevede l’uso della palla a spicchi. Eh si, perché dopo aver sentito una sola volta il fruscio della retina l’amore è subito sbocciato.

Per rendere l’idea, cominciamo da uno dei quesiti finali: se non avessi fatto il giocatore di basket, come ti saresti visto?“Questa è la domanda più difficile che mi potessi fare! Ogni tanto mi chiedo, se non lo avessero inventato, che cosa avrei potuto combinare… ma non saprei proprio!”. I ringraziamenti al professor Naismith qui sono d’obbligo. Dal 1891 infatti di acqua sotto i ponti ne è passata abbastanza, tanto da far arrivare questa meravigliosa idea anche in una cittadina della provincia cuneese abitata da 28.000 anime: parliamo di Bra, dove Giancarlo è nato (1988) e cresciuto ed ha mosso i primi passi nel mondo cestistico.

“ Mi sono avvicinato al basket un po’ per caso, anche perché i miei genitori non facevano parte dell’ambiente. Un giorno arrivò un allenatore nella mia scuola elementare ed iniziò i classici corsi di minibasket: fin dal primo impatto ne restai folgorato e, pur essendo un’età in cui la tendenza è quella di provare tanti sport, la pallacanestro da allora non l’avrei più lasciata.” All’inizio è puro divertimento con gli amici, poi la svolta con il passaggio dal Brabasket all’Abet Bra: “Ha cominciato pian piano a formarsi un bel gruppo partendo dalla categoria Ragazzi, poi Cadetti ed infine Allievi, con il quale abbiamo disputato i corrispettivi campionati regionali. Di pari passo crescevo sia tecnicamente che fisicamente. Ecco, la mia fortuna, lo dico spesso, è anche quella di aver incontrato allenatori competenti che nonostante l’altezza non mi hanno mai messo sotto canestro, perché avrei potuto certamente segnare di più, ma sarei anche scomparso prima in quanto presto raggiunto in altezza e fisico da quelli con uno sviluppo meno rapido. Giocavo dunque da esterno, con la palla in mano e questo mi ha aiutato tanto in prospettiva.” Con gli Allievi arriva pure la prima vittoria da mettere in bacheca: “Abbiamo vinto il titolo regionale ed in semifinale ho fatto 69 punti contro Novara. Solo che nella stessa gara, Thomas Branca (ora in ___) ne aveva fatti 90! Me lo ricordo ancora, non sbagliava mai, faceva sempre canestro! Il punteggio finale è stato comunque 115-102 per noi, pazzesco…”. “In quegli anni giocavo pure con gli ’87 di coach Valeriano D’Orta, senza però mai far parte della squadra seniores. E’ forse, con il senno di poi, è stato molto meglio così perché non ero sicuramente pronto ad essere gettato ’nella mischia’ ”.

A quell’età (14-15 anni) cominciano le selezioni per il Trofeo delle Regioni e un’occhiatina ai prodotti piemontesi , oltre a Biella, la da anche Casale, vogliosa di diventare una società emergente e competitiva sia a livello giovanile che a livelli maggiori. “In quell’anno a Casale andammo io e Mauro Bezzi, i primi due giocatori di un progetto che l’anno seguente si sarebbe ancora più allargato. Partecipai ai campionati Cadetti e Juniores eccellenza, e con i primi abbiamo anche raggiunto l’Interzona.” E con la squadra di (allora) B1? “Il primo anno feci solo qualche allenamento; invece a partire dal secondo mi viene proposto di fare il 10° all’interno del team allenato da Franco Ciani. Ha finito per essere una stagione fantastica perché, pur giocando poco, ma d’altronde era la prima esperienza tra i senior, è arrivata la promozione con sole sei sconfitte totali ed anche il successo in Coppa Italia.” Era l’annata di Alejandro Muro e Davide Cristelli (“sono stati come due fratelli maggiori”) oltre che di Aimaretti, Davolio, Farioli, Quaroni, tutta gente capace di fare la differenza a quei livelli. “Io non ero sicuramente pronto, soprattutto fisicamente, e così a partire dall’estate ho cominciato a lavorare sotto tutti gli aspetti: sul fisico, sul tiro, sui fondamentali, tutto quanto mi permettesse di crescere come giocatore.” In campo giovanile intanto resta un sogno: le Finali Nazionali, obiettivo mai raggiunto da Giancarlo. Anche nell’anno successivo però, nonostante i favori del pronostico, e dopo una perfect season, arriva la sconfitta nella finalina regionale contro Biella (“un grande rammarico per me”). Perlomeno con la squadra di LegaDue (che tuttavia retrocederà) conquista i suoi piccoli spazi e fa capire di potersela giocare anche ad alti livelli. La freccia della fiducia, tendente verso l’alto, sfonda i limiti prestabiliti dopo la convocazione da parte di Gaetano Gebbia per far parte della spedizione della Nazionale Under 18 in terra greca. “L’ho presa come una dimostrazione del fatto che il lavoro paga. Per di più anche a livello europeo, confrontandomi con ragazzi della mia età e nonostante le difficoltà derivanti dalla mancanza di esperienza, ho dato prova di poterci stare, accumulando con il passare del tempo un minutaggio sempre maggiore. Una soddisfazione assoluta.”. Il 2006/2007 è un’annata un po’ particolare, infastidita fin da subito da un’operazione al menisco: il recupero arriva intorno ad ottobre/novembre e senza più gli Juniores, tocca farsi largo nella prima squadra partendo tuttavia in inevitabile ritardo. Il nuovo allenatore, Marco Crespi, sembra aver già stabilito e ordinato ruoli e gerarchie, così per Giancarlo il parquet di gara diventa un po’ meno frequentato. A metà campionato spunta l’idea di un doppio tesseramento in C1 a Valenza: “E’ stata dura poiché facevo allenamento dalle 17 alle 19 con Casale e poi dalle 20 alle 22 con Valenza. Qualcuno potrebbe pensare che arrivando dalla seconda Lega sia stato facile, ma non è così, anzi: a Valenza è stata praticamente la mia prima vera occasione di giocare con continuità tra i ‘grandi’, ed è stato tutt’altro che semplice, te lo assicuro. In più ero al 5° anno da geometra. Ma la notevole fatica è stata poi ripagata: ce la siamo giocata fino in fondo con Moncalieri riuscendo a spuntarla nella finale dei playoff, completando così la scalata in B2, e al di fuori dei palazzetti ho pure conseguito il mio diploma, di cui sono estremamente orgoglioso”.

Sfogliando il libro, si cambia capitolo. Stagione 2007/2008, quella passata. Tra le società italiane più attive da sempre nella ricerca e nel miglioramento dei giovani talenti c’è sicuramente la Virtus Siena che, accortasi della classe del braidese, ne richiede i servigi a Casale : “Un anno fantastico sotto il coach Stefano Salieri. Eravamo una compagine che puntava tutto su contropiede, ritmi elevati, velocità e a scapito dei pronostici, che ci davano addirittura poche speranze di salvezza, siamo riusciti a vincere la Coppa Italia, arrivando poi fino al secondo turno di playoff contro Trapani.” E a dirla tutta c’è anche la ciliegina sulla torta, grazie al premio di miglior Under 23 del torneo, non proprio bazzecole. “Grande soddisfazione, è vero, ma molto lo devo al coach, che mi ha concesso 26’ di media (conditi da circa 10 punti ad uscita ndr) in un mondo dove addirittura si è ancora costretti ad inserire delle regole per far giocare i giovani: vedi la regola dei due under ’88 e dei due under 20 in B1 o quella dei 5 under in Piemonte. A mio parere dovrebbe giocare chi se lo merita, riconosco però che un modo semplice ed immediato per risolvere questa situazione forse non c’è”. Torniamo a Siena: “Come città è fantastica, mi sono trovato benissimo… ci ho veramente lasciato metà del mio cuore. Come squadra invece giocavamo in 7-8, non tanti, ma mettevamo sempre tutto e di più in campo… alla fine però siamo rimasti praticamente in cinque a causa degli infortuni. Io negli ultimi minuti di gara 2 con Matera, al primo turno di play off, mi sono rotto lo scafoide e questo stop si è aggiunto a quelli di altri due miei compagni. Insomma, è stato quasi inevitabile che perdessimo poi 3-0 con Trapani”.

I mesi estivi tuttavia riportano la serenità: dalla Nazionale Under 20 arriva la convocazione in vista degli Europei di categoria a Riga, Lettonia. “Periodo super! L’esperienza con la Nazionale giovanile mi riempie sempre di convinzioni, di fiducia in me stesso e riuscire a vedere che puoi fare meglio di tanti coetanei sparsi in tutta Europa è sempre un qualcosa che ti carica al massimo.” Il 6° posto conclusivo però lascia un pizzico di amarezza nel palato: “Siamo partiti molto bene: dopo un ottimo girone pensavamo di entrare tra le prime quattro e lì poi giocarcela. Ma a causa di un arrivo con tre squadre a pari merito, siamo stati fregati dalla classifica avulsa… Per soli quattro punti di scarto siamo finiti nel giro di sfide valevoli dal 5° all’8° posto! Abbiamo quindi perso con Montenegro chiudendo 6°”.

La filosofia di Giancarlo è quella di fare un passo alla volta, senza mettere il piede in troppe scarpe, e così parte la ricerca di una nuova società che gli dia nuove, ampie responsabilità e minuti. “Siena l’ho lasciata un po’ a malincuore, ma quando mi è giunta la chiamata di Franco Ciani da Osimo, il mio ex allenatore con cui ho instaurato uno stupendo rapporto, non ho esitato più di tanto ad accettare. Il basket qui, come in tutte le Marche, è lo sport più seguito e quindi capisci immediatamente che il clima e l’ambiente sono proprio quelli giusti. Ci sono aspettative, certo, ma il passo successivo che ho fatto lo ritengo perfetto”. E anche la sua personale risposta alle esigenze è perfetta: le statistiche parlano di un ventello abbondante ad allacciata di scarpe, che ne fanno il secondo miglior realizzatore del girone B della A Dilettanti, dietro il bomber italo-americano Mike Gizzi. Avendo giocato al fianco di gente come Marco Evangelisti o lo stesso Muro, gli chiediamo se per caso non ha preso in prestito qualcosina, qualche segreto da cannoniere: “Ti dico,molto lo devo alla fiducia e convinzione di cui ti ho parlato prima. Ed è anche grazie ai miei compagni di squadra se sto viaggiando su questi livelli, perché sono loro a darmi la palla anche quando sbaglio, sono loro a sostenermi. Comunque Marco, Alejandro sono grandi giocatori, da cui ho cercato di imparare il più possibile ed evidentemente avendoci giocato assieme, qualcosa ho anche rubato loro!!”.

“Adesso arriva il difficile, poiché le squadre avversarie, conoscendoti già, apportano aggiustamenti difensivi come ad esempio decidere di flottare o meno, eccetera. Questo però è un’ulteriore fonte di stimoli e responsabilità. In più è arrivata la chiamata di Recalcati per il raduno della Nazionale e sono tutte cose che continuano a spingermi a lavorare intensamente e dare il meglio di me!” Allora discutiamo di speranze: “La prima è quella di fare bene con Osimo e arrivare il più lontano possibile, poi si vedrà.” C’è solo il presente nella testa di Giancarlo, ma magari il “next step” potrebbe essere la Serie A. Preferenze? “Una su tutti: Milano. Per la storia, la tradizione, i grandi atleti che hanno indossato quei colori. Anche Bologna sponda Virtus però non sarebbe male…” Difficile dargli torto. Uno che la maglia delle Vu Nere l’ha indossata nel passato, anche con notevoli successi al seguito, è Manu Ginobili, l’attuale guardia dei San Antonio Spurs in Nba: “E’ il giocatore cui mi ispiro maggiormente, senza alcun dubbio. Mancino come me, lo ritengo l’atleta più vincente di tutti dopo Jordan. Ha ottenuto titoli in Europa, in America, con la Nazionale, ovunque. Infatti gioco con il 20 in suo onore. Un fenomeno”. Rimanendo in tema, cosa ne pensi dei tre italiani (Gallinari, Bargnani e Belinelli) dall’altra parte dell’Oceano: “Sono contento che finalmente abbiano potuto trovare spazio e dimostrare il loro enorme valore. Poi uno come il ‘Gallo’, anche negli U.S.A., non ce l’hanno: un 2.07 con quel tiro, quelle mani, il talento, penso non avrà problemi a diventare uno dei top players. E’ bello vedere comunque un po’ di Italia anche lì, tra i migliori”.

Ripassando dal globale al locale, è inevitabile una considerazione sulla pallacanestro piemontese e in particolare sulla situazione di Torino, argomento per così dire in voga negli ultimi tempi: “Guarda, te ne potrei parlare per un’ora! Si sono spese già molte parole a riguardo. Ritengo strano che una regione simile abbia due sole squadre tra i professionisti (Biella e Casale ndr). In più nel cuneese dove abito io, la ‘categoria massima’ in cui si possono rintracciare società di basket è la C regionale. Assurdo, se paragonato alle Marche, dove situazione ed atmosfera sono totalmente opposti. Torino, poi, con le strutture che ha ora a disposizione, con la storia che ha dietro, il passato glorioso… il fatto che non ci sia neppure un team al di sopra della C Dilettanti è assolutamente inspiegabile. Forse l’augurio che tutti si fanno è l’arrivo del classico Paperon ‘De Paperoni, ma è strano che non ci sia più niente”. A parer tuo questo può essere imputato alla presenza di Juve e Toro? “Forse questo può essere un qualcosa che unisce. Il non essere divisi da una fede potrebbe aiutare a far crescere il movimento e far divenire il basket come ideale per Torino. La prima cosa è però far diventare la pallacanestro di moda, un po’ come capita a Milano. A quel punto cresce l’interesse, se ne parla, le notizie vanno sulla bocca di tutti e il pubblico si appassiona”.

Tra le domanda più frequenti c’è sempre quella riguardante i ringraziamenti. A chi vuoi dire grazie e perché: “Salieri e Ciani. Sono stati come due padri che hanno sempre creduto in me, dandomi minuti, spazio, possibilità e quant’altro. A loro devo molto. Così come ancora più devo ai miei genitori e ai miei nonni. Loro sono entrati nel mondo cestistico al mio fianco: non conoscevano nulla di nulla e oggi sono talmente appassionati che mio padre si guarda quindici partite a settimana, dalla serie D a Bra fino ai match in televisione. Non ne perde una! Inoltre i nonni si fanno spesso e volentieri il viaggio in treno fino ad Osimo per vedermi giocare: arrivano il sabato, restano la domenica e il lunedì ripartono. Mitici! Hanno sempre assecondato tutte le mie scelte, aiutandomi costantemente in tutto senza mai obbligarmi a fare qualcosa e dandomi consigli ogni qualvolta ce ne fosse bisogno. Per loro l’importante è che io sia contento e questa è una bellissima cosa”.

Giancarlo è pur sempre un ragazzo di 20 anni e quindi per terminare gli chiediamo quali sono i suoi sogni e i suoi hobby: “Il sogno? Indossare la canotta azzurra della Nazionale. E’la cosa che desiderio di più assolutamente. Gli hobby invece sono quelli che hanno tutti i ragazzi della mia età, soprattutto uscire con gli amici. Adesso poi uso abbastanza il computer essendo preso da Facebook (ride ndr) e vado volentieri al mare, visto anche dove mi trovo! Mi piace infine viaggiare e Miami è nettamente la mia città preferita, da perderci la testa, anche se li prima dei 21 anni puoi fare poco o nulla. Voglio assolutamente tornarci!” Allora vuoi dirci che Miami è meglio di Bra? “Ahi! E’ durissima! Anche in mezzo alle colline, insieme alla famiglia sto benissimo!” Un grande, come persona e giocatore. Ladies and gentlemen: Giancarlo Ferrero.

domenica 23 agosto 2009

Best Friends Capitolo 4

CAPITOLO IV

America ed Europa sono fisicamente appartenenti allo stesso grembo della madre Terra, ma concettualmente e ideologicamente di due universi divorziati da anni, se non da sempre. Il Basket non fa eccezione, anzi demarca i contorni e risalta i contenuti di questa separazione che si esprime particolarmente su tre piani: il sistema sportivo, l’organizzazione e la mentalità. Categorie generali che non presuppongono una guerra fa queste due attitudini di pensiero, ma rendono i diversi orizzonti ancora alquanto inavvicinabili. Se è innegabile dunque che le capacità (oltreché le possibilità) di Stern e co. si trovano su di un altro livello distante anni luce, è altrettanto insindacabile che l’ambiente e le persone all’interno del Vecchio Continente creano un qual certo romanticismo, sconosciuto tra Hollywood e la Statua della Libertà, attorno al battito del pallone sul parquet tanto da fare, di un paio di colori, una “stagione di fede assoluta” [volendo citare “Finding Forrester”, film concernente in parte la pallacanestro con Sean Connery (aka William Forrester) nelle vesti di un ex scrittore prodigio, che si riscopre guida spirituale del giovane talento letterario, nonché cestistico, Rob Brown (aka Jamal Wallace) dopo anni di solitudine forzata e voluta, riassaporando anche l’amore per la vita grazie allo stesso rapporto di amicizia col ragazzo].

A Cantù, ricco centro industriale e della produzione artistitica del mobile situato in Brianza, quelle maglie bianco blu di “Chicco Ravaglia” e del “Pierlo” Marzorati, che sembrano pendere dal cielo più che dal soffitto dell’immortale Pianella, al fianco di stendardi autoritari simboleggianti le grandi vittorie di un settantennio di attività, significano tutto e di più. Sono l’orgoglio, innanzitutto, per tutta quella serie di emozioni capaci di rendere la Pallacanestro Cantù uno dei punti di riferimento del panorama cestistico italiano ed europeo. Sono la gioia ed il rimpianto, perché queste due parole non potranno mai essere dissociate. Sono il passato su cui costruire il futuro. Sono l’amore spassionato per questo Gioco. Un amore senza confini che non controlla i passaporti o le facce della gente, ma che può far godere per una coppa vinta tanto quanto per un playoff acciuffato all’ultima giornata grazie ad un quartetto americano variegatamente mixato sia come background che come caratteristiche (Dashaun Wood, Gerald Fitch, Torin Francis e Denham Brown), un atletone francese scartato dai “cugini” milanesi (Hervè Tourè), un lituano “color Fucka” dal nome improbabile (Povilas Cukinas), un trittico di gregari (oltre a mio fratello Niccolò, Juan Marcos Casini e Federico Lestini) ed un capitano uruguagio, ormai completamente italianizzato, che in quanto a coraggio ha di che rispiegare la lezione a tutti (Nicolas Mazzarino). Il mondo d’altronde è bello perché vario. La squadra in questione, allenata dall’imolese Luca Dalmonte e targata Tisettanta, ha concluso la stagione 2007/2008 in maniera esaltante (7° piazzamento nella griglia playoff), sorprendendo tutti gli addetti ai lavori che, prospettando un viaggio “all’inferno” nelle più rosee previsioni estive, probabilmente avevano sbagliato la mira di qualche chilometro, visto l’incubo attraversato dagli eterni rivali di Varese. Retrocessione senza attenuanti, con la beffa aggiuntiva del pugno del k.o. giunto proprio sul parquet del PalaMasnago ad opera di Mazzarino e soci, con il pre-partita “animato” dal volo di un aereo, affittato per l’occasione, recante appesa la scritta “EAGLES CANTU’ … SERIE B SERIE B”. Touchè. E dire che poco tempo è passato dallo scudetto della stella vinto con Gianmarco Pozzecco in campo a dispensare meraviglie e, per restare in tema, “aeroplanini”; lo stesso Poz catapultato nella passata stagione dall’altra parte dello “Stivale” in zona Capo d’Orlando e attorniato costantemente dall’eco di sei lettere che, legate insieme, si rendono prima o poi inevitabili nella vita di uno sportivo, ma che mai avremmo voluto sentire pronunciate così presto dal goriziano: r-i-t-i-r-o. Varese è stato l’inizio del vero spettacolo e anche qualcosa in più, mentre il mare di Sicilia ha mandato in onda la sigla finale. E in mezzo?

Tra l’1 e il 3 agosto del 2004 è in programma un triangolare a Colonia, città tedesca della Land (o più impropriamente regione) Nordrhein-Westfalen, i cui partecipanti sono le nazionali di Italia e Stati Uniti, oltre ai padroni di casa della Germania. Per le prime due, il torneo ha la funzione di test preparativo in vista dell’imminente ritorno alle origini dei Giochi Olimpici, sotto l’ombra del Partenone; per Nowitzki & friends, mancato il pass d’accesso alla più importante manifestazione sportiva mondiale, proprio per mano del team di Carlo Recalcati negli Europei di Stoccolma dell’anno precedente, la circostanza è buona sia per mettere in mostra le (elevate) qualità organizzative della Federazione teutonica, sia per confrontarsi con e contro il “modello” americano, oltremodo apprezzato da quelle parti. Il tricolore nostrano sembra avere insomma l’utilità del contorno a fianco della portata principale. Fascino e richiamo dell’evento, per quanto amichevole possa essere, tuttavia sono molto forti e le 9/10 ore di viaggio in macchina dalle “porte” di Torino, scorrono piacevoli e leggere. All’arrivo nel centro città di Colonia, le cose che si notano immediatamente sono tre: il Duomo in stile gotico (il terzo più alto al mondo), imponente e maestoso, la “Kölnarena”, stessi aggettivi da riciclare in ottica più moderna e tecnologica, e un edificio in fase di abbattimento sotto i colpi della palla demolitrice di una gru, sinistra e metaforica visione dello sgretolamento del muro posto tra “U.S.A. Basketball” e “Resto del Mondo”. Con una sola gara al giorno, di tempo per le visite turistiche ce n’è più che a sufficienza, ma il punto focale della “tre giorni” resta ovviamente il Basketball: la prima sfida vede confrontarsi “die deutsche Nationalmannschaft gegen Italien”, in pratica Nowitzki vs Italia. Il risultato finale dice “WunderDirk” (che chiude a quota 26 una prestazione di totale bellezza e pulizia cestistica), ma la compagine italiana è promossa in toto grazie anche al fantasioso rinnovamento portato da Pozzecco. La mattina dopo, l’allenamento di Galanda e compagnia scorre sereno con gli Stati Uniti in mente, ma senza tensione né timore: si sa, le grandi vittorie partono prima dalla testa e dalla convinzione. Ciò che il “Poz” crea dal palleggio, indifferentemente ambidestro, per guardie, ali, centri, panchinari, massaggiatori e allenatori, è un qualcosa di assolutamente unico e artistico, che in seguito all’ennesimo “no look” per due facili di Chiacig ti fa ringraziare quel giorno da piccolino in cui vedesti per la prima volta la palla a spicchi e ne rimanesti folgorato come col più classico dei colpi di fulmine. Archiviata la sessione di esercizi e preparazione dell’Italia, è ora la volta della Germania. Nowitzki (che sulla carta d’identità fa sempre 2 metri e 13) inizia una serie di tiri giusto per riscaldarsi: la meccanica è da far mancare il respiro e i primi sette, più che baciare la retina, sostanzialmente non la sfiorano nemmeno. Momento di totale estasi. L’allenamento deve però poi proseguire a porte chiuse, secondo il volere di coach (Dirk Bauermann) e staff nero-rosso-gialli: ciononostante il risveglio dall’incantesimo dura poco o nulla, poiché alle ore 20 in punto è in agenda la prima palla a due tra Team U.S.A. e Italia. Neanche un amaro Lucano si può chiedere di più dalla vita.

L’arena, oltre ad essere già piena circa mezz’ora prima della palla a due iniziale, è nettamente schierata dalla parte degli americani con lo storico coach Larry “play in the right way” Brown a gestire dalla panca. Carattere particolare e intelligenza unica, l’allenatore del “Dream Team 2k4” fu spesso autore di autentiche magie alla guida delle sue squadre (vedi Kansas in Ncaa, Clippers, Nets e Phila ai piani alti), portando a casa però l’unico jackpot finale della sua carriera Nba giusto un paio di mesi prima con i Detroit Pistons. Sostanzialmente era, agli occhi di tutti, in cima al mondo. Soltanto che se dalle sue bande nulla gli era sconosciuto, nemmeno i segreti più reconditi, le regole e l’universo FIBA in generale avevano (ed hanno tutt’ora) qualche “lieve” differenza con quel contesto e presentarsi anche solo ad un torneo pre-olimpico con la benché minima idea di chi possano essere Pozzecco e Basile, tanto d’aiuto non può essere. Nel settembre 2002 andavano in onda i Mondiali di Indianapolis, la bandiera a stelle e strisce sventolò solo dopo quelle di altre cinque Nazioni e se qualcuno si ricorda le stupende prestazioni di Ginobili e Bodiroga, forse non tanti rammentano le parole dell’allenatore statunitense George Karl: “Il mondo sta trovando degli accorgimenti e delle risposte al nostro Basket”. Parole sante. Brown tuttavia doveva aver marinato la lezione quel giorno.

Al mio fianco siedono due afro-americani con abbigliamento hip-hop e treccine d’ordinanza, probabilmente compari di Carmelo Anthony (viste le canotte col numero 15 di Denver da loro indossate e il fatto che lo stesso ex Syracuse abbia rivolto loro qualche cenno in un paio di circostanze), anch’essi sicuri anziché no di una facile vittoria. Come dargli torto: il riscaldamento di Iverson è abbacinante per la creatività di movimenti da playground che sprigiona, LeBron James non è ancora il “carro armato” di oggi ma fa spavento comunque, Stoudamire e Marion quando saltano sembrano non tornare mai giù, Duncan, Marbury e Wade hanno troppa classe per essere veri. Addirittura appaiono in “vantaggio” perfino a livello di commentatori, perché vuoi mettere il grande Bill Walton con Claudio Coldebella? Va beh, non resta che goderci lo spettacolo. “U.S.A – U.S.A. – U.S.A.” è il coro che si innalza più volte dagli spalti, sostituito talora da “ooooh” di meraviglia per alcune giocate. Attenzione, colpo di scena: c’è anche l’Italia! Galanda è subito in palla in entrambe le metà campo e quando sul parquet mette piede Righetti, gli Azzurri volano letteralmente a +9. Coach Brown ha già ruotato quasi tutti gli uomini a disposizione non riuscendo mai a trovare la carta giusta e così, nonostante la debordante fisicità dei suoi, alla seconda mano l’asso lo cala il collega avversario. Pozzecco inventa come Da Vinci per Galanda, che bombarda a più non posso, e in breve si arriva sul 35-20. Fino a poco fa scattavo foto a ripetizione, ora mi gusto questa fuga molto probabilmente effimera. Lo dimostra d’altronde l’amico ‘Melo, il quale, con il supporto di Shawn Marion (le due gambe umane più rapide ed esplosive nel salire al ferro che io abbia mai visto), consente il rientro in gara del “Dream Team in tour” fino al -6 precedente la pausa del tè. “Mannaggia che occasione sprecata!”. Lo pensano tutti tranne uno. Questo folle è un ragazzo di Ruvo di Puglia, noto per i cosiddetti “tiri ignoranti”, che l’anno seguente sarà capace di condurre la Fortitudo allo Scudetto con la fascia di capitano nel cuore più che sul braccio: lo chiamano “Baso” ma è più conosciuto come Gianluca Basile. I famosi tiri di cui sopra arrivano come grandine, sono 5 nel solo terzo periodo, con James e Wade persi tra i blocchi a non capirci assolutamente più nulla. La differenza la fa poi soprattutto la difesa che manda in tilt il gioco statunitense, privo di tiratori, “playmaking” e saggezza cestistica (con Duncan, unica voce a predicare nel deserto).

Il tempo scorre e la forbice, che si sta allargando sempre più, ad un certo istante si rompe come se si scontrasse contro il sasso della morra cinese, tutto ciò esattamente quando le redini dello show si incarica di assumerle il “Mago di Poz”. L’odore del sangue stuzzica la ricettività olfattiva di Gianmarco, il quale, colpito da un attacco di creatività delirante, azzanna la giugulare avversaria annichilendo a turno due contratti da 20 milioni di dollari corrispondenti al nome di Iverson, Allen e Marbury, Stephon, gente orgogliosa ai limiti della superbia, cui madre natura avrebbe anche donato discrete doti atletico-motorie. Il “Poz” vede cose proibite al bambino de “Il sesto senso” sfornando assist a ripetizione per mandare a referto a turno Chiacig, Galanda e Basile, salvo poi mettersi in proprio quando il momento lo richiede: il pubblico, intuendo che qui la storia è in fase di riscrittura, cambia improvvisamente fazione fino ad esplodere, come la più fedele delle curve italiane, dinanzi all’ “Inchino”. Sul +18, Pozzecco, che negli ultimi due attacchi aveva creato per cinque punti di Galanda, riceve il pallone a metà campo e vedendo una strada di luce si infila nel cuore della difesa statunitense affiancato da “The Answer”: penetrazione, finta di scarico in angolo per Chiacig, “and one” in allungo col fallo di Emeka Okafor e mano dietro la schiena per il suddetto “Inchino” di fronte al presidente della FIP Maifredi e all’intero parterre della “Kölnarena”. Tutti in piedi. L’azione seguente altro bignè per il 28° punto del capitano e totale disfatta americana. I due amici al mio fianco a suon di -“Oh man, great game!”- si complimentano e appaiono addirittura imbarazzati. Fila 4, Posto 18: chi se lo scorda più.

Pensare che tutto questo sarebbe stata solo un’anticipazione de “ il più bello” antecedente a “deve ancora venire”, però, era da veggenti nati. La memoria delle persone, a proposito dei grandi avvenimenti che la toccano, ricorda sempre due cose principali: l’evento in sé e il luogo in cui ti trovavi quando tutto ciò è successo. Alcuni esempi: erano circa le 9 e 40 di mattina dell’11 settembre 2001 quando rientrai a casa e vidi uno dei miei due fratelli sdraiato sul divano con un’espressione decisamente esterefatta intento a fissare il televisore. Mi sedetti a terra sul tappeto senza aver messo pienamente a fuoco l’accaduto, salvo poi essere catapultato nella dura realtà nel giro di venti minuti, nello stesso attimo in cui la seconda delle Torri Gemelle sarebbe crollata dinanzi ai miei occhi distanti migliaia di chilometri. Difficilmente l’inferno può dirsi peggio. Ma: “tempus aedax”. Meno di due anni dopo, sullo stesso tappeto e in rigorosa posizione scaramantica, gioisco come non mai per la vittoria in finale di Champions League, all’ “Old Trafford” di Manchester, del mio Milan contro i non amatissimi avversari juventini. Goduria totale che si amplia di proporzioni l’anno successivo, vista l’archiviazione del 17° scudetto della squadra rossonera, sorta tra l’altro lo stesso mio giorno e mese di nascita (e per fortuna anno diverso). Il buon tappeto anche qui ha fatto il suo lavoro, ma l’ultimo esempio, che riconduce al discorso precedente, ha sede d’altra parte: a casa di mia nonna a Sanico, frazione (minima, considerato l’esiguo numero di abitanti) di Alfiano Natta in provincia di Alessandria. E’ il 27 agosto 2004 ed in programma, oltre al solito giro in bici tra i campi e i paesi circostanti, c’è esclusivamente l’incontro tra Italia e Lituania. Si parla di semifinale olimpica, of course. Li avevamo lasciati in Germania speranzosi, ce li ritroviamo ad Atene con l’opportunità di tagliare uno dei traguardi più sensazionali di sempre per la nostra Nazionale. Dubito che qualcuno non sappia come sia andata a finire e in tal caso possano bastare alcuni riferimenti come il 100 – 91 corrispondente all’incredibile punteggio finale del match ed i numeri 31 e 17 sulla ruota d’Italia, relativi alle pennellate rispettivamente sparate ai baltici da Basile e Pozzecco.

Il rapporto del “Poz” con i propri allenatori è sempre stato problematico, tanto da fargli rischiare e talvolta addirittura perdere la maglia Azzurra (per informazioni rivolgersi al grande Boscia Tanjevic), che tuttavia un secondo padre come Carlo Recalcati gli ha coraggiosamente restituito in un’estate di passioni, venendo ripagato con una serie di emozioni ineguagliabili, non solo per il coach, ma per chiunque, tali da valere una “follia” come la seguente. Terminati il 7/11 da 3 del “Baso” e la geniale ispirazione pozzecchiana dei secondi 20’, conclusasi la sfilza di liberi capace di rendere vani i 26 punti di un favoloso Macijauskas, vero punto di riferimento della Lituania campione d’Europa uscente, alzate le braccia al cielo dopo l’ultima sirena, parte una telefonata: dolce cosciente follia quella che plasma l’idea di una toccata e fuga per assistere alla Finale contro l’Argentina di Scola e Ginobili, autori del soverchiamento totale del potere americano, rivolto ora a salvare la faccia solo più con un “miserevole” bronzo. A piano ultimato, mi sorge in mente la mia ideale lista di desideri: questa casella barrata è quasi in cima, poco ma sicuro. Non è la prima volta e non sarà nemmeno l’ultima che metto piede in terra greca e specialmente ateniese, ma mai un viaggio è stato così intenso e appassionante, forse grazie anche alla breve durata che tra andata e ritorno ha conteggiato non molto più di 16 ore. L’elettrizzante atmosfera olimpica la si può inalare già all’interno dell’ “Elefthérios Venizélos”, aeroporto rasente la perfezione a sud della capitale ellenica, in cui l’infinito “melting-pot” di gente proveniente da ogni dove ti fa comprendere che il valore dell’evento a cinque a stelle va ben oltre l’essere puramente ed unicamente sportivo. Quando poi, la visione del tripode arso dalla fiaccola si concretizza, due pensieri o tre in più alla storia ti sovvengono inevitabilmente: sai che la fiamma ha illuminato Barcellona e “the real Dream Team” nel lontano 1992 anche se forse sono stati Magic, Larry e Michael a rischiarare il contorno; così come ha assistito, nell’ancor più distante 1968, il pugno alzato con il guanto nero di Tommie Smith, signore incontrastato dei 200 metri all’epoca, e John Carlos sul podio di Città del Messico, facendo intendere che il meraviglioso sogno del dottor Martin Luther King Junior, partorito esattamente un lustro prima, aveva sì bisogno di sempre maggiore supporto ma al contempo era il brevetto ufficiale di un mondo diverso, migliore, più giusto e più… realista; sei conscio inoltre che il braciere ha fatto da testimone al massacro degli sportivi israeliani da parte dell’organizzazione palestinese Settembre Nero a Monaco ’72, così come invece è stato simbolo di commozione per l’impresa dell’aborigena Cathy Freeman a Sidney 2000; senza contare infine attimi indelebili come l’accensione del fuoco di Atlanta ‘96 da parte di Muhammad Alì, il quale, nella debolezza causatagli dal morbo di Parkinson, mostrò tutto il suo vigore facendo idealmente pace col mondo e chiudendo di fatto un cerchio, partito proprio da quella città della Coca Cola che diede i natali al pastore King di cui sopra. La lacrimuccia scende a prescindere.

Bisogna però scuotersi poiché prima della portata principale c’è un antipasto assai gustoso come U.S.A. vs Lituania, che avrebbe potuto valere tranquillamente la sfida per la medaglia aurea: ma questa è l’estate degli italiani (con e senza virgolette), visto che se chiedete a Manu Ginobili e Carlos Delfino il nodo cruciale della loro carriera, difficile che non vi rispondano con un nome tra Italia, Bologna e Reggio Calabria. Nota a margine su quest’ultima: indimenticabile l’estate di passioni, tramutatasi però poi in disastro societario e in qualche anno fallimento, in cui sulla lista della spesa del GM della Viola erano comparsi gli acquisti di giocatori allora quasi sconosciuti come Anderson Varejao e Ben Wallace (entrambi ora più o meno furoreggianti sotto l’ala protettiva di LBJ 23) o anche Nenè Hilario (power forward dei Denver Nuggets capace di sconfiggere un tumore), i quali avrebbero dovuto affiancare la stella splendente di Carlton Myers e assecondare la guida tecnica dal pino di Carlo Recalcati. Grande scenografia comprendente pure un geniale interesse verso Arvydas Sabonis che, come in uno dei migliori copioni hollywoodiani, ha finito per essere un bluff di dimensioni stratosferiche. Ah già: regia a cura dell’ingegner Domenico Barbaro, scomparso in situazioni rocambolesche e senza più lasciare traccia. Strano… Le strade periferiche che si aprono da ogni argomento sono innumerevoli e quindi meglio tornare su quella maestra. Spostando l’occhio dalla Fiaccola in direzione est, si incrocia la vista con l’ Oaka Arena, la casa del Panathinaikos in grado di contenere circa 18000 anime. All’ingresso nel palasport si sentono solo i variopinti e colorati supporters lituani per i quali Lietuva = fede incondizionata, senza mezzi termini. Le nostre seggiole si trovano in una metà della tribuna opposta alle panchine delle squadre, nel “settore italiano” affiancato dall’altra metà latina che ospita le bandiere bianco-azzurre provenienti da Buenos Aires & friends. All’appello non mancano nemmeno gli statunitensi, sparsi un po’ ovunque ma dall’entusiasmo contenuto, per usare un eufemismo, perché la Finale Olimpica non è più affare loro e questo, oltre ad essere un evento più unico che raro, è un contraccolpo notevole sull’ego sconfinato del Paese che è oggi nelle mani profumate di cambiamento di Barack Obama. A tal proposito mi è utile interpretare la faccia del commissioner Nba David Stern: lo intravedo a breve distanza e avvicinandomi per chiedere un autografo (la mia più cattiva ed al contempo amata fissazione) noto un sorriso costante ma forzato, sintomatico che gli dei sono piombati giù dall’Olimpo (metafora perfetta per luogo e momento) e questo non è andato per nulla giù a chi comanda, esponendosi anche in prima persona. Quello che canta Nelly Furtado:“Why do all good things come to an end?” se lo stava chiedendo anche Stern. L’incontro in sé appare quasi un match da All Star Game con difese ballerine, attacchi esplosivi e giocate a sensazione: a portarla a casa, salvando in parte capre e cavoli, sono Marion (22 veleggianti a grandi altezze), Iverson (15) e Odom (14), anche se l’ormai usuale “loosing effort” da 24 pepite (con 7 bombe) di Macijauskas ben più di qualche grattacapo l’ha creato. U.S.A. vincitori ma “perdenti”, osservati a bordocampo dalle colleghe della WNBA: loro sì Nazionale imbattibile, composta da giocatrici del calibro di Diana Taurasi, Lisa Leslie, Sheryl Swoopes, Dawn Staley, Tina Thompson e Yolanda Griffith, le quali in Finale hanno spazzato via la splendida aussie Lauren Jackson e relative compagne. Time is come. Sembra di stare in apnea, attendendo solo che quaranta lunghi, rapidi minuti scadano. Non troppo lontani da me ci sono i genitori di Pozzecco: il figliolo non è al 100%, tutt’altro, scavato in volto dalla fatica accumulata durante il torneo, ma da qui al dare forfait proprio nella partita della vita… suvvia, questo è sempre quello dei capelli fucsia con la stella gialla di Varese. No way: lo sanno mamma Lalla e papà Franco, lo sa Charlie, lo sa Meneghin, lo sanno tutti. Vada come vada, ma disertare in trincea non è roba da Poz.

Il racconto si interrompe.

Ore 1:00 circa. Con lo stomaco in allarme ci rechiamo io, mio padre e mio fratello Lorenzo, in un risto-pub-bar (boh!) per mettere qualcosa sotto i denti e trovato posto in un tavolino esterno al locale, nel mezzo di una minuscola viuzza del centro ateniese, ordiniamo da mangiare. Appena serviti, neanche il tempo di dare il secondo morso che dal viale parallelo si sente provenire un forte botto, seguito poi da urla e un fuggi-fuggi generale. Nel giro di due minuti capiamo il perché del trambusto e in gran velocità, portandoci via pane e salsicce, ce la diamo a gambe levate attraverso una cappa fumogena che dal luogo del misfatto si era presto dilatata in tutto il quartiere. Passo dopo passo giungiamo nella piazza principale della capitale greca, “Omonia Square”, e visto che di mangiabile precedentemente ne era rimasto ben poco, una sosta tappabuchi in un noto fast food americano male non fa. Il Big Mac non delude mai e stavolta porta con sé anche la sorpresa: le 2 a.m. si avvicinano e dalla porta d’ingresso del Mc Donald’s sbucano… Pepe Sanchez e Manu Ginobili, i due bahiensi con ancora addosso la divisa recante il “Sol de Mayo” e con tanto di sgargiante medaglia d’oro al collo! Lo champagne deve aver fatto effetto perché un colpo così scommetto che pochi ce l’hanno. Mi avvicino per complimentarmi e far vergare il canonico foglio, e noto una cosa: ma quanto è magro “Gino”?! Non sembra vero che questo ogni sera si scontri con bestie sullo stile O’Neal o Yao Ming uscendone pure vincitore, eppure il suo amico Duncan poco fa era sul terzo gradino del podio mentre lui, con l’orgoglio di un “conquistador”, mostrava al mondo la bandiera “celeste-blanco-celeste” dall’alto della montagna degli dei, anche a scapito della sua amata Italia. Eh si, perché l’incantesimo azzurro è stato spezzato dalle penetrazioni dell’ex idolo indiscusso di Casalecchio e dal solito, fantastico, implacabile Luis Scola, i cui 25 punti non ne avranno fatto l’MVP, ma ragazzi che partita… La stanchezza di Basile e soci era troppa ed è andata anche al di là del cuore, comunque sempre arealmente incalcolabile, altrimenti non pareggeresti a quota 45 nel terzo quarto, tirando male e giocando quasi in slow motion, grazie ai canestri di Rombaldoni e Garri uniti a quelli di Soragna. Le triple ignoranti non sono entrate, quelle più costruite nemmeno, secondo alcuni poi Pozzecco è stato dimenticato troppo in panca e così nel 4° periodo la legge del più forte è stata applicata anche da Alejandro Montecchia, altro italo-argentino dal cuore di pietra. Grande vittoria, di tutte e due. Le lacrime del “Poz” sono inevitabili: per toccare questa vetta ha messo tutto sul banco e ciò che batte nel petto non ne è che una minima parte. Come tutti è partito dal basso ma a differenza di molti è rimasto nel cuore facendo sobbalzare, commuovendo, riscrivendo l’aspetto artistico del basket e del non-basket, immaginando ciò che nessuno ha neppure una volta intravisto, ridendo anche quando non avrebbe dovuto, vincendo l’argento più dorato della storia della Nazionale, ispirando lo striscione “Poz: un saluto al nostro miglior peggior nemico!” persino nell’eterna rivale Cantù, camminando sempre a testa alta a costo di dire “niet” (vista la parentesi russa) anche alla Virtus con giusto due soldoni sul piatto, salutando “Chicco” Ravaglia e giocando anche per lui, divertendo, divertendo e ancora divertendo. Soprattutto, poi, è genuino e li non ti sbagli. Ad Avellino, con la maglia targata Upea di Capo(z) d’Orlando, ha mandato il suo ultimo saluto al basket giocato. Anche lì si è inchinato ringraziando tutti con i lacrimoni agli occhi, proprio come aveva fatto a Colonia e proprio come aveva fatto al Pianella in mezzo al campo. Le braccia si allargano, l’aeroplanino si manifesta: “Poz numero 1”.

Best Friends Capitolo 3

CAPITOLO III

20 dicembre 1969. Baton Rouge, profonda Louisiana, profondo Sud degli States: le giornate in estate sono umide ed afose, a volte appaiono interminabili, i rumori della vegetazione rischiano di essere alla lunga insopportabili ma con l’abitudine si tramutano nella tua colonna sonora giornaliera. Il clima forgia il carattere dei nativi di queste zone: pronuncia allungata, andatura lenta, quasi rilassata o “molleggiata”, l’etica lavorativa, l’assaporare appieno le giornate come “modus vivendi”, il football come religione.

12 gennaio 2000. Charlotte, North Carolina: “The Queen City”, al tempo dimora della franchigia Nba degli Hornets, è il centro finanziario, economico e punto di riferimento totale per lo Stato che comprende anche la “Tobacco Road”, campo di battaglia per l’eterna rivalità tra UNC e Duke e area dalla cui atmosfera si potrebbe estrarre l’essenza più pura del basket (cosa che potrebbe aver fatto il più grande di sempre, Michael Jordan, nato a Brooklyn, ma cresciuto fisicamente a Wilmington e cestisticamente proprio alla University of North Carolina, sotto i comandamenti di Dean Smith) . Il life-style moderno e frizzante poi nasconde una metropoli non ancora compiutasi al 100%.

Tra queste due date, questi due luoghi è intercorsa la vita di Bobby Ray Phills II, un figlio come tanti del Mississippi, ma anche ragazzo d’oro, che partendo dalla non memorabile Southern University di Baton Rouge (28 ad allacciata di scarpe nella stagione da senior), tradusse in realtà un sogno chiamato Nba. Per completarlo però si rese necessaria un’ulteriore gavetta visto che, dopo la scelta al numero 45 del Draft 1991 ed una stagione vissuta da spettatore non pagante sulla panchina di Milwaukee, dovette ripiegare sui parchi di Sioux Falls, in CBA. Il martirio durò per fortuna lo spazio di qualche mese, fin quando non fu Cleveland, convinta dai 23 punti in dotazione a serata, a riportarlo nella Lega “cugina” di maggior prestigio. Sei anni in Ohio (intorno ai 10 punti di media), a cui ne seguirono tre da Hornet al fianco di gente come Glen Rice (superbo tiratore da qualsiasi distanza e vincente sia a livello collegiale con Michigan, che al piano superiore con i Lakers di Kobe e Shaq), Dell Curry (altro shooter balisticamente notevole, il cui figlio Stephen sta attualmente facendo onde in NCAA con Davidson University), Tony Delk, Vlade Divac (“Marlboro Man” e due mani all’europea che per un centro di quella stazza lì dovrebbero essere off-limits), Tyrone “Muggsy” Bogues (160 centimetri di play tascabile per antonomasia) e David Wesley (grande amico di Bobby). Un percorso simile di raggiungimento dell’Nba lo compì Avery Johnson (natìo di New Orleans), che dopo gli eccellenti anni alla Southern fu tuttavia trascurato da ogni scout e general manager: “undrafted” dunque, ma in grado di conquistarsi le luci della ribalta vincendo prima il titolo al fianco di Tim Duncan nel 1999 (finale contro i Knicks di “Spree” e Allan Houston) e poi aggiudicandosi giusto un paio di anni or sono il premio di “Coach of the Year” al timone dei Dallas Mavs. Ugualmente luci, ma non certo portatrici di gioia, furono invece quelle che Bobby si ritrovò di fronte nella mattinata del 12 gennaio dell’anno di apertura al nuovo Millennio: appartenevano ad un’auto, su West Tyvola Road nei pressi del Charlotte Coliseum (pochi chilometri a sud di downtown sostanzialmente), contro cui la Porsche 993 Cabriolet di BP si schiantò tragicamente dopo aver perso il controllo del mezzo. Il lavoro eziologico della polizia locale portò alla luce che Bobby stava guidando, con un limite di 45 miglia orarie (circa 70 km/h), oltre le 100 mph, 75 secondo altre fonti, per raggiungere la propria moglie Kendall, fin quando uno sbalzo della vettura non l’ha gettato in mezzo alle fauci del tragico destino. Alcune macchine più avanti c’era David Wesley,il compagno ed amico insieme a cui avrebbe dovuto recarsi all’appuntamento, considerata la presenza anche della moglie di quest’ultimo, il quale fu in seguito incriminato per guida incauta e spericolata, tanto che si pensò addirittura ad una gara di velocità tra i due. Coach Paul Silas, avvisato dell’accaduto, si recò sul posto del misfatto e vide la fiamma di Bobby spenta definitivamente tra le lamine accartocciate. Due ore o poco più. Tanto ci volle per estrarre il corpo dalle macerie, un corpo pittoresco (1.95 per 105 chili di soli muscoli) , tagliato su misura per i “tight end” della Nfl. Sul parquet era una guardia tiratrice dalla mano morbida (ruolo che si è costruito strada facendo a partire dalla Tuskegee High School, per la quale evoluiva in special modo da centro) e ottimo difensore (ben nota la risposta “Michael who?” alla domanda di un giornalista, che chiese se lui temesse affrontare Michael Jordan) , oltre che figura carismatica all’interno dello spogliatoio; al di fuori era invece uomo di grande intelligenza, devoto, altruista e disponibile (fondatore della “Bobby Phills Educational Awareness Foundation”, nel 1996, per l’aiuto di bambini meno fortunati), con un sorriso in grado di scioglierti l’anima, ma soprattutto padre di tre bimbi. Quella maledetta mattina però, il futuro oscurò le proprie carte. Il ritmo blando del ragazzo del Sud aveva aumentato le sue frequenze poco prima delle ultime note, ma la vera musica, quella che viene dal cuore, non muore mai e come direbbe Puff Daddy (o P.Diddy) “I know you still living your life, after death” Bobby.

Passarono sei mesi, altro incidente d’auto e altro lutto che sconvolse la Lega del commissioner David Stern. Ogni tanto la giustizia divina tende ad avere atteggiamenti perlomeno incomprensibili, altrimenti non si spiegherebbe come Malik Sealy, guardia/ala dei Minnesota Timberwolves, sia potuto morire in una collisione causata dal guidatore ubriaco di un “pickup truck”, rimasto al contrario vivo, con solo qualche ferita (stessa positiva, ma “giusta”, sorte toccata all’automobilista che vide piombarsi addosso Bobby Phills). Figlio di una guardia del corpo di Malcolm X, nato e cresciuto nel Bronx, nome da rapper della East Coast, ma una personalità ed un cuore che hanno fatto costantemente rima con generosità, bontà ed abbondanza: al pari di Bobby infatti, Malik ha sempre anteposto gli altri al proprio “io”, mettendo davanti a tutto la famiglia, il gruppo, pensando prima alla crescita di un giovanissimo Kevin Garnett, che alla sua decina di punti serale o al contratto più o meno milionario (e proprio con l’ultimo firmato decise di rimanere ancora a Minneapolis per amore verso i compagni di squadra e la città). K.G. aveva dato una festa per il suo compleanno quella sera del 20 maggio e intorno alle 3 di mattina Malik stava facendo ritorno verso le braccia della moglie e il dolce respiro della figlia cullata dal letto. La cintura non allacciata, il suo SUV era privo di Air Bag, chi va a pensare che qualcuno possa prendere quel tratto della highway del Minnesota, con annessi lavori nella seconda corsia, in contromano? No, no, impossibile. Un uomo troppo forte Malik, uno spirito creativo non secondario che lo aveva portato ad incidere una canzone rap, “Lost in the Sauce” (all’interno dell’album “Basketball’s Best - Kept Secret” composto insieme ad altri giocatori Nba quali Shaquille O’Neal e Gary Payton), e anche a recitare in diversi telefilm oltre che in una pellicola al fianco di “Sister Act”, al secolo Whoopi Goldberg; il Bronx vero, non quello dei film, come casa; quattro stagioni sensazionali alla St. John’s University e gli ultimi play off, conclusisi pochi giorni prima contro la Portland di Sheed e Pippen, trascorsi a oltre 12 punti in 30 minuti di medio utilizzo; cinque giorni dopo la scomparsa di Bobby Phills aveva messo a segno un buzzer-beater a tempo quasi scaduto versus Indiana. No, no, non può finire così, siamo appena nel secondo quarto della sua vita. Poi un articolo sulla Gazzetta nel tragitto verso la scuola, una maglia #2 issata verso il cielo al Target Center, le lacrime di Garnett e la voce singhiozzante, la scritta indelebile sulle scarpe “2Malik”. Come per BP, la musica ha però alzato il suo volume dal profondo. Un verso della lirica di Malik dice, “life’s just one big jumpshot”… tranquillo Malik, vivrai per sempre nel meraviglioso fruscìo della retina.

Due tragedie, ma sfortunatamente non le prime e nemmeno le ultime. Vedi Eddie Griffin, “il Grifone”, che spesso e volentieri incantò tutti alla High School (la rinomata Roman Catholic di Philadelphia) e al college (Seton Hall), prima di incontrare anni problematici tra Houston, New Jersey e Minnesota. Dopo il taglio da parte dei Timberwolves, venne spazzato via da un treno ma soprattutto dai problemi con l’alcool, da una testa in cui riaffiorava incessantemente la morte del fratellastro, dall’eccessiva tendenza del suo animo a mostrare il lato più aggressivo. Nella “città dell’amore fraterno” Eddie aveva costruito la sua vita chiudendo il cuore al mondo esterno, un mondo che nell’agosto 2007 avrebbe rimpianto per l’ultima volta un enorme talento talmente perduto da ignorare i segnali di pericolo del passaggio ferroviario. Altre luci e nulla più.

Le morti a noi più vicine però, inevitabilmente aumentano la nostra tristezza, sgretolando al contempo le nostre certezze. E il giocatore cui l’Europa è sempre stata più legata e per cui maggiormente ha inondato fiumi di lacrime miste a parole, è sicuramente Drazen Petrovic. Un’irripetibile sinfonia di passione, tiro e sudore durata 29 anni, composta dal “Mozart dei canestri”, forse il più forte giocatore ogni epoca al di qua dell’Atlantico.

E’ il 22 ottobre 1964, a Sibenik, città costiera dell’attuale Croazia e al tempo una Yugoslavia non ancora travolta dagli eventi, vede per la prima volta la luce il secondogenito della coppia dei signori Petrovic, Biserka e Jole. Al pupo viene affidato un nome derivante dalla parola slava “dorogo”, che significa “perfetto”, e che sarà uno degli aggettivi più sovente accostati al Drazen cestista. Come spesso accade, i bambini ancora in tenera età tendono ad imitare in tutto e per tutto le gesta dei fratelli più grandi ed un sentito grazie non sarà mai abbastanza per Aleksandar Petrovic, la cui passione per la pallacanestro (cosa comunque alquanto consueta in terra croata e dintorni, per usare un eufemismo) avrebbe inconsciamente cambiato per sempre gli scenari mondiali di questo meraviglioso Sport. Il piccolo Drazen mostrò fin da subito una predisposizione naturale per la Pallacanestro, a cui però in breve associò ore e ore di tiri, palleggi, “moves” compiuti ed affinati in una sorta di playground del piccolo porto dalmatico (che oggi conta circa 40mila anime), ma che in realtà non andava tanto oltre l’essere un canestro posto su un palo, dinanzi ad un muro. La leggenda inizia qui, sviluppandosi dalla mattina alla sera, con poche soste concesse al resto, perché la fame di vittoria (o il totale rifiuto della sconfitta, a seconda dei punti di osservazione) ha il primato su tutto e quando i successi nei campionati giovanili diventano scontati, visto l’assoluto dominio tecnico-cestistico di Drazen, la soluzione più ovvia è la promozione nella prima squadra locale alla “veneranda” età di 15 anni, fianco a fianco con gente che potrebbe anche fargli tranquillamente da padre. Nel giro di 730 giorni i minuti da professionista crescono doverosamente e dopo la conquista dell’oro agli Europei Juniores, il cognome Petrovic è sulla bocca di scout (e non solo) che vanno dal Portogallo alla Russia, toccando la Scandinavia e più a sud l’Italia. Il “tre”, gesto di vittoria in terra slava, è il numero magico per eccellenza e alla sua terza partenza dai blocchi della nuova annata sportiva, con la maglietta numero 8 della sua città, il ragazzino entra in totale trance agonistica, per non uscirci più in ogni singolo giorno della sua vita futura. I punti abbondano facilmente oltre la quindicina ad allacciata di scarpe e la squadra inizia a volare, raggiungendo l’apice con la finale di Coppa Korac persa a Padova, nel 1982, per 90-84 contro i francesi del Limoges di Ed Murphy e Richard Dacoury. L’exploit di un club così piccolo e storicamente, si direbbe, minore fa innalzare molti sopraccigli, ma Drazen tuttavia continua ad avere molte difficoltà nell’accettare il faccia a faccia con la parola “sconfitta” e il giorno dopo, il pallone ed il canestro rischiano di essere i soli a vederlo per l’intero arco di 24 ore. E’ il momento della stagione successiva: le beneficiate arrivano ormai ogni benedetta sera (si sfora oltre i 24 di media) e le finali conquistate saranno due, anche se altrettante le sconfitte (nuovamente contro Limoges in Korac e poi sulla strada verso il titolo yugoslavo, in realtà vinto proprio grazie a Drazen, ma portato via dalla federazione per motivi sinistri, forse politici, la serie contro il Bosnia Sarajevo). Nel cartone giapponese Dragonball, il protagonista (Goku) è un Sayan, cioè una razza (proveniente da un altro pianeta) di guerrieri, i quali, allorchè sconfitti, riprendono le loro forze diventando ancora più forti, come se dagli insuccessi traessero maggior vigore per poi ripresentarsi dinanzi alle nuove battaglie con capacità innovative e sempre meglio affinate: “Petro”, come soleva essere chiamato Drazen, fu la trasposizione reale dei combattenti Sayan, perché due anni di beffe “finali” erano decisamente troppi e, nonostante la chiamata annuale dell’esercito per il servizio di leva, al suo ritorno sul parquet divenne “unstoppable” per chiunque. I trofei comunque sarebbe stato difficile vincerli sotto casa, così con un po’ di saudade ma il doppio di volontà, determinazione e sicurezza bussò alle porte del Cibona Zagabria, la società croata per eccellenza, tra le cui fila presenziava anche una persona ben nota: il fratello Aleksandar. Beh, non durò esattamente tantissimo il periodo di adattamento, anche perché se ti trovi a giocare subito con la tua “squadra del cuore”, difficilmente vergarne 56 è indicativo di timori o complicazioni di sorta. Irreale. Il Basket è la sua vita, l’amore per i tifosi una spinta in più. Col Cibona vince tutto ciò che gli capita tra le mani, che sia in campo regionale, nazionale o europeo poco cambia. Chamberlain, una bestia di 216 centimetri, come detto, segnò 100 punti in una gara; Petrovic 112, contro gli sloveni dello Smelt Olimpija. Scherziamo!? In bacheca ci finiscono agevolmente Coppe dei Campioni, Coppe delle Coppe, titoli e trofei slavi, successi contro gente del calibro di Arvydas Sabonis (il “Principe del Baltico” vestito di verde Zalgiris Kaunas) e Drazen Dalipagic (allora, sfavillante in Italia tra Udine e Venezia) oltre ad un’infinità di riconoscimenti personali. MVP! MVP! La sfiga è che se fosse nato a 6 ore di macchina di distanza verso nord-ovest, anziché Drazen avremmo “Dario”: così non è però e dunque i grandi team nostrani, Milano targata “Simac” (con THE COACH, Dan Peterson, sul pino e Mike D’Antoni, J.B. Carroll e Dino Meneghin ad impazzare sul parquet), Cantù, Roma, Pesaro e Caserta, sono costretti ad interpretare, nella scenografia, il ruolo delle città occidentali prima e dopo il passaggio del famoso re Unno, Attila. Le difese, com’è intuibile, furono messe a ferro e fuoco, conducendo qualcuno nel “Bel Paese” ad inventarsi il soprannome di “Mozart dei canestri”. Alla seconda stagione, con soli 21 anni alle spalle, le realizzazioni per incontro passano da 32 a 43 (un po’ “peggio” in Europa, visto che a referto scrive di regola 37 miseri punti), e se mai ve lo domandaste i minuti di gioco all’epoca erano sempre quaranta tondi. 1 vs 1 è assolutamente immarcabile, il tiro non ha niente e nessuno con cui essere paragonato, l’intelligenza cestistica ha raggiunto livelli inusitati e la paura, quella non l’ha nemmeno mai incontrata sul dizionario. Dall’altra parte dell’Atlantico corrono le voci.

Trascorso un fantastico quadriennio, Drazen sente la necessità ed il bisogno di nuove sfide e, pur portando sempre nel cuore i momenti vissuti dentro la futura “Drazen Petrovic Basketball Hall”, opta per il blasone di una squadra come il Real Madrid che all’elevata competizione affianca, ad ogni modo, due soldini mica da ridere. Ma la passione va oltre il vil denaro. La limitatezza del linguaggio prorompe tutta d’un colpo, in quanto il fiume di aggettivi finisce per seccarsi nel giro di qualche mese. Le stesse meraviglie mostrate col Cibona, “Petro” le riproduce tali e quali con la “camiseta blanca”: LeBron James oggi è il “Re”, Drazen Petrovic allora era l’ “Imperatore”. In finale di Coppa delle Coppe, la Caserta di Nando Gentile e Oscar Schmidt (il più forte sportivo brasiliano di sempre senza il pallone tra i piedi) perde al supplementare per cause di forza maggiore o in altri termini, per mano di Drazen e delle sue 62 perle. Altri scaffali riempiti, altro desiderio che brucia nell’anima. Il Real se ne innamora perdutamente, ma la scelta effettuata da Portland un paio di anni prima rappresenta l’irresistibile tentazione, l’ultimo round in cui eccellere rivaleggiando con i giocatori più forti del pianeta. Nella “città delle rose” resta dal 1989 all’inizio del 1991, raggiungendo subito la possibilità di vincere il titolo (andato poi ai “Bad Boys” di Detroit), ma rimanendo anche a lungo seduto, con un minutaggio nemmeno vicino ai 20’ di impiego medio. I Blazers erano stati illuminanti nello sceglierlo al Draft, ma furono altresì ciechi nel non voler affidare l’arancia ad uno che rimaneva pur tuttavia un europeo di 1 metro e 95 per 88 chili. Con la Nazionale si toglie però lo sfizio di vincere i Mondiali in terra argentina, asfaltando gli Urss nel match per l’oro. I Nets annusarono l’odore di affare e senza eccessivi sforzi per convincere chi di dovere, gli garantirono l’occasione ed il contesto giusti. Cambia la costa, cambia il numero di maglia (che dal 44 diventa il 3), cambiano i risultati e cambia soprattutto la Yugoslavia. L’orgoglio croato diventa libero ed indipendente, e alla stessa maniera Drazen rompe le catene rapendo gli sguardi di tutta America. L’amore per la pallacanestro, mai sopito, lo spinge ad osare sempre di più: 20 di media il primo campionato, 23 il secondo. Nel mentre addirittura insidia, con i colori della Croazia sul petto, il Dream Team americano alle Olimpiadi di Barcellona ’92, sparando 24 punti in finale al cospetto di “Sua Maestà” Michael Jordan. Ora sì, è ufficialmente tra i migliori al mondo. Il contratto firmato con New Jersey va poi in scadenza e per una serie di problemi (con la dirigenza) e circostanze, si ritrova libero di accasarsi in una formazione che possa ambire all’anello Nba. Tutti i pezzi del puzzle si stanno sistemando al loro posto, ma l’incredibile è dietro l’angolo. Il 7 giugno è attualmente giorno di lutto nazionale in Croazia poichè in quella stessa data dell’anno 1993, a Denkendorf (Germania), si è spento a causa di un incidente stradale, l’uomo più amato di sempre dal popolo croato, un giocatore di Pallacanestro che ha riempito di gioia il cuore di chi l’ha visto evoluire sui campi di tutto quanto il mondo. Aveva da poco disputato la sua ultima partita (contro la Slovenia) con l’adorata maglia patriottica anche se per guai fisici sarebbe dovuto mancare. E’ andata così, la strada l’ha portato via, ma non è difficile immaginarlo tirare e giocare dovunque si trovi adesso, in nome di quel grande amore di cui si è innamorato a prima vista. Era proprio perfetto…

Hvala Drazen.

Best Friends Capitolo 2

CAPITOLO II

A voce di tutti, o quasi, il meno terrestre è solo e sempre stato Jordan ed è forse per questo motivo che dal suo (primo) ritiro si è costantemente cercato qualcuno in grado di raccoglierne il testimone: esplorate e quindi abbandonate le piste che conducevano a Grant Hill, Vince Carter, Tracy McGrady (e tanti altri…) il Graal, la corona, lo scettro o chiamatelo come volete, è finito nelle mani di Kobe Byrant. Co-protagonista nei Lakers accennati sopra, ma sempre un gradino sotto Shaq come importanza, il figlio dell’ex Reggio Emilia Joe “Jelly Bean” Bryant, ha già ampiamente dimostrato che come singola individualità il paragone col “numero 23” ci sta alla grande. “Capocannoniere” Nba a piacimento, premio di MVP ritagliato per lui, 62 (!) e 81 (!!!) punti proferiti nel giro di un paio di settimane, dieci gare in fila oltre il quarantello (MJ superato), un campionario tecnico infinito ed un tasso di spettacolarità (che non guasta mai) da brividi. One Man Show: nel bene e nel male perché Kobe, a differenza di Jordan, deve ancora dimostrare di saper vincere da leader della squadra, sapere cioè guidare i suoi al Larry O’Brien Trophy caricandoseli sulle spalle e gestendo il controllo del proscenio. Qui Bryant non è (ancora) al livello del Maestro , ma qualcuno ha il sinistro presentimento che proprio dall’annata in corso le cose possano presentare un nuovo risvolto [n.d.r. Ad una anno di distanza il destino ha compiuto il suo corso. Black Mamba MVP della Finale e tanti cari saluti ai critici].

Miti e leggende sono però sovente anche figure o addirittura squadre che alla resa dei conti hanno concretizzato ben poco, ma che per qualcuno e per qualche ragione sono assorti al ruolo di “immortali”. Il mio pensiero, ad esempio, sentendo parlare (e guardando giocare) gente apparentemente predestinata come Sebastian Telfair, OJ Mayo o il Greg Oden di turno (LeBron James merita un discorso a parte, anche due…) va sempre irrimediabilmente a ripescare il nome di colui che avrebbe dovuto prendere in mano le redini di successore naturale di “The Answer”: da Camden, New Jersey, DaJuan Marquett Wagner. “The Messiah”. 1 metro e 85 centimetri di talento puramente distillato, sparso inizialmente alla locale Camden High School, in cui un giorno (non) come gli altri decise di scriverne a referto tanti quanti ne limò Chamberlain ai Knicks nella storica gara del 2 marzo 1962. Senior’s season chiusa con 42 pts ad allacciata di scarpe, ovviamente record. Il giovane DJW cresceva così come la sua popolarità e, prima di asciugare la bava ai vari scout Nba, decise di prestare i propri servigi a coach Calipari, fermata Memphis University del treno che porta al piano di sopra. Vederlo attacare il ferro in maniera sì variegata è un piacere assoluto per ogni pupilla tanto quanto è un viaggio all’inferno e ritorno per i suoi difensori. Al termine della prima ed ultima stagione al college chiude oltre le 20 pepite a sera cui si aggiungono il titolo di Freshman of The Year e quello di Mvp (con messa in bacheca) del NIT. Come detto, Next Stop: Nba. Alla numero 6 lo pesca Cleveland, convinta di aver compiuto un autentico furto. Il destino si rivelerà beffardo: Wagner viaggia a 13 di media nell’anno da rookie ma con all’attivo circa metà delle 82 partite giocabili, visti i gravi problemi intestinali (colite) che cominciano sinistramente ad affliggerlo. Con il tempo le cose vanno addirittura peggiorando, così come le cifre, e le partite disputate saranno 55 nel giro di due anni. Terminato il “canonico” contratto triennale per i giocatori provenienti dal draft, i Cavs scelgono l’opzione del non-rinnovo e per la serie “se può andar peggio, stai sicuro che ci va”, DaJuan è costretto anche all’asportazione del colon con conseguente abbandono del basket giocato per l’annata in divenire. Ripartire non è la cosa più semplice da fare ed infatti “The Messiah” con la faccia da bambino non rivedrà più il vero sé stesso. La comparsata dello scorso anno in Polonia, al Prokom Sopot, ha di che definirsi malinconica ed il presente è ora affidato alle mani e ai metodi del rinomato preparatore atletico Tim Grover. La speranza non morirà mai, ma probabilmente il sogno era finito prima ancora di aver dato libero sfogo alla fantasia.

L’aria di Cleveland, o “The Mistake on the Lake” come veniva da molti soprannominata, doveva però avere qualcosa di sbagliato, di maligno all’epoca dell’ingresso di Wagner nella Nba: la squadra fu infatti costruita attorno, oltre che al rookie da Memphis, a gente come Ricky Davis, Zydrunas Ilgauskas e ad un astro nascente proveniente dai Los Angeles Clippers che risponde al nome di Darius Miles. Il primo è un “cavallo pazzo” natìo, non a caso, di Las Vegas, saltatore irreale, che durante l’anno in questione diverrà autentico idolo per le generazioni future quando sul finire di una gara abbondantemente in ghiaccio, ad un rimbalzo dalla prima tripla doppia in carriera, con una magata assoluta sbaglierà volontariamente un lay-up nel… proprio canestro per cercare di catturare la fatidica carambola, venendo però prontamente “linciato” da un accorrente DeShawn Stevenson. La disperazione di coach Paul Silas nei confronti di un giocatore mai amato, raggiungerà i massimi storici. Il lituano fu invece incredibilmente martoriato dagli infortuni che lo costrinsero a saltare quasi 300 partite nei primi sei anni di Nba, ponendo così ovviamente un forte limite alle capacità atletiche del centro da Kaunas (non a quelle tecniche però che, grazie ad una fortunatamente ritrovata stabilità, negli ultimi anni gli hanno permesso di ergersi tra i top nel suo ruolo, merito anche con buona probabilità della presenza in squadra di LBJ 23, verso il quale le difese stanno più attente di un radar militare). D-Miles infine era uno che al proprio arrivo nella Lega indusse molti dottori e scienziati a riscrivere i manuali di anatomica ed al contempo rivedere qualsiasi formula gravitazionale. Membro ufficiale della “banda delle fascette”, completata da Lamar Odom, Quentin Richardson, Corey Maggette, Elton Brand e Keyon Dooling, che riuscì a rendere i Clippers la squadra più divertente d’ America, Darius abbagliò il mondo nel giorno dell’All Star Saturday allorchè, nonostante la sconfitta del team dei primo anno, si abbattè con sei vorticose schiacciate di indescrivibile spettacolarità e bellezza sui malcapitati avversari, puntualmente posterizzati senza scrupoli. I miglioramenti dei Clips però tardarono ad arrivare nei due anni con Miles ed il tassello mancante, secondo il coach Alvin Gentry, doveva essere un playmaker: senza esitazione fu quindi scambiato, insieme ad Harold Jamison (si, quello di Ferrara), per Andre Miller, alquanto sconcertato in Ohio. La fiducia riposta dallo staff dei Cavs nell’ex talento di East Saint Louis HS però non ha mai pagato i dividendi sperati (la media punti calante ne è un esempio evidente) ed è così che con l’avvento (vero e proprio) di “The King”, LeBron James, Miles ha cambiato quasi immediatamente aria con il trasferimento a Portland. Nella “Rose City” il suo immenso potenziale sembrava finalmente in grado di essere sprigionato dopo due campionati in abbondante “double-digit”, finchè una maledetta “microfracture surgery” (vero incubo di qualunque cestista) non ha tarpato le ali ad un volo (apparentemente) sempre più continuo e strabiliante che aveva lasciato molti a bocca aperta fin dal principio. L’odore di ritiro a 24 anni è una gran brutta bestia.

Di quella fantastica compagine faceva anche parte un ragazzo dell’Alaska, transitato alla corte di Coach K a Duke, chiamato Carlos Boozer, il quale al termine dell’annata successiva compì “Il Tradimento”, venendo letteralmente considerato al pari di Giuda dai tifosi dei Cavs (che gli hanno pure dedicato il sito internet, “Carlos Loozer.com”): il misfatto sta nell’aver dato la propria parola per un rinnovo contrattuale sicuro con Cleveland, salvo poi accettare l’offerta decisamente più remunerativa (nell’ordine di milioni) e favorevole dal punto di vista tecnico (un ruolo da leader assicurato) di Utah pochi giorni dopo. Che il 99,9% dei viventi avrebbe fatto la medesima scelta, conta poco. Cavaliers e Clippers sono comunque due universi a parte all’interno di quella Nba che un modo per farti divertire lo trova e lo troverà sempre.

E qual'è il metodo più sicuro per entusiasmare tifosi ed osservatori di cinque continenti? "The Dunk", of course. I puristi avranno sicuramente ogni motivo e ragione per dissentire, ma obiettivamente l'adrenalina, dopo azioni ad alta quota, tende a salire a livelli inusitati. Le schiacciate, proprio per loro natura, sono sempre state accompagnate da istinti di supremazia, dominio, forza, voglia di ergersi al di sopra degli altri e colmare, anche se in piccolissima parte, quell'eterno desiderio (umano) di volare. Di "Icaro" nella storia di questo gioco ce ne sono stati tanti (lo stesso Darius Miles, non è che una controprova) e solo in pochi sono diventati indimenticabili. Fare paragoni è tanto impossibile quanto inutile, ma proprio nessuno ha mai conciliato nella medesima maniera le capacità acrobatiche, atletiche, tecniche e artistico-creative del Vince Carter ai tempi di Toronto e in parte New Jersey. Shaquille O’Neal lo ribattezzò, già al suo primo anno, “Half Man-Half Amazing” senza che nessuno osasse nemmeno vagamente propugnare un minimo di cautela. Incurante delle vertigini, "Vincecredible" è entrato con un braccio nel canestro, ha scalato vette sensazionali come i 220 centimetri di Frederic Weiss alle Olimpiadi di Sidney 2000 (“folle volo” avrebbe detto Dante), fatto colazione, pranzo e cena sulle teste di stoppatori del calibro di 'Zo Mourning, Dikembe Mutombo, Tim Duncan (saltato anche lui letteramente come il francesone) e Ben Wallace, roteato a 360° “mulinando”, ma soprattutto planato con uno stile mixato di eleganza e potenza senza precedenti: un autentico viaggio trascendente in prima classe extra-lusso. Molti non saranno magari d’accordo ed argomenti confutativi come possono essere Julius Erving (il candidato principale nella corsa ideale verso lo scettro), Michael Jordan, Dominique Wilkins o, in tempi moderni, LeBron James hanno anche il loro fascino, ma quel Vincent Lamar Carter da Daytona Beach, a mio modesto parere, il fiato te lo toglie come nessun altro. Se da una parte ci sono i grandi schiacciatori, esiste comunque anche l’altro lato della medaglia, cioè quegli sventurati difensori che arrivando in aiuto al proprio compagno battuto vengono puntualmente posterizzati (come dicono al di là dell’Oceano) dal saltatore di turno, il quale non raramente e con buoni diritti si concede anche uno sguardo tra il cattivo e l’irrisorio verso il malcapitato, per cui oltre al danno si aggiunge la beffa. Storicamente questi gesti di sfida sono stati rivolti in particolar modo dalle iper atletiche guardie/ali verso i centroni dai 7 piedi in su, capaci di stopparti anche senza saltare e dunque visti un po’ come quel poliziotto corrotto ed intoccabile (sovente materia televisiva), cui le stesse angherie proferite ad un certo punto si ritorcono contro con enorme soddisfazione non solo dell’ex “vittima” ma anche degli spettatori a casa. Uno di questi “sbirri” d’area è stato certamente Shawn Bradley: mai visto qualcuno così a lungo abbonato nel finire sui poster delle camere e dei muri di tutto il mondo. Nei nove anni (dal 1996 fino al suo ritiro avvenuto nel 2005) di militanza con la canotta dei Dallas Mavericks, questo mormone, soprannominato non a caso “Mormon Mantis” (la mantide mormona), con passaporto tedesco , fu assolutamente fatto oggetto di un concorso di schiacciate facciali da parte di tutti i migliori dunker della Lega, tanto da finire costantemente nella Top 10 di Nba Action, seppur dalla “parte sbagliata della luna”. Tra i più assidui partecipanti si annoverano il già citato Carter e suo cugino (di alto, alto… altissimo grado) Tracy McGrady, Kevin Garnett, Keon Clark (altra incredibile storia di pterodattilo atleticamente strabordante, che viene però ricordato per due cose: ovviamente la schiacciata in testa a Bradley con fallo a conclusione di una specie di terzo tempo in “fade away”, e la spropositata mole di problemi legali al di fuori del parquet, fra cui l’uso spregiudicato di marijuana e cocaina, motivo primario del suo allontanamento dalla Nba), Kenyon Martin negli anni mirabolanti di New Jersey al fianco di Jason Kidd, Donyell Marshall in quelli di Salt Lake City e Shaquille O’Neal, che alla sola vista dell’ex Brigham Young University tirava fuori istinti “godzilleschi” di distruzione del ferro e dintorni. Anni ruggenti.

Anni in cui “Tony Tiger”, o meglio noto come Tony Delk, sfoderò una prestazione da 53 perle in 50’ contro i suoi ex compagni di Sacramento.

Nato a Covington, Tennessee, fu campione NCAA 1996 con la Kentucky di Pitino, che sconfisse la Syracuse University di Jim Boheim e John Wallace al termine di un torneo eccezionale in cui i Wildcats vinsero ogni gara di almeno sette punti (le prime quattro dai venti in su) e Tony fu eletto Most Outstanding Player (MVP sostanzialmente) della Final Four dopo i 24 che mandarono in archivio la stagione. L’Nba si è però rivelata più dura del previsto, vista la sua tendenza ad essere una guardia nel corpo di un play, e così il passo da possibile stella a gregario è stato breve. Dopo tante difficoltà, è transitato poi dalle parti del Pireo, a domicilio del Panathinaikos con cui fece il grande Slam, anche se in maggio venne allontanato per problemi disciplinari e con la dirigenza. Il suo meglio (tra i Pro, of course) lo diede però proprio in quella fresca serata di gennaio del 2001 (in maglia Suns), chiusa a 20/27 dal campo, senza nessun tentativo da oltre l’arco e facendo scendere più di una lacrimuccia a molti puristi del Gioco: “Impossible is nothing”. E’ anche, o forse soprattutto, così che qualcuno può bussare alla porta del cuore e delle emozioni vere.

Anni della maledizione playoff per lo “Sceriffo”.

Parliamo cioè di Shareef Abdur-Rahim, Mr. Eleganza dai movimenti ghepardeschi, che in nove anni statisticamente rilevanti (20+9 assicurato) tra Vancouver Grizzlies, Atlanta Hawks e Portland Trail Blazers, non ha mai raggiunto quella benedetta post season e quel livello che per molti avrebbe dovuto competergli. Nel 2004 bruciò addirittura il record di match consecutivi disputati senza playoff per un giocatore. La stagione seguente doveva essere l’anno giusto, con il trasferimento ai Nets del trio Kidd-Carter-Jefferson: le visite mediche diedero però incredibilmente responso negativo e l’ex terza scelta del Draft ’96 si vide costretto a ripiegare sui Kings. Ma proprio con questi, nonostante problemi tecnici e gestionali (compresa l’esclusione dal quintetto), ottenne il pass per l’Elite Eight della Western Conference. I sogni, tuttavia, spesso non sono come te li eri immaginati ed incontrare gli Spurs, benché non nelle annate dispari, è stato sempre arduo per tutti. Poi arrivarono gli infortuni; infine il ritiro. Grazie lo stesso, Shareef.

Anni di dolore e lacrime.