Le morti a noi più vicine inevitabilmente aumentano la nostra tristezza, sgretolando al contempo le nostre certezze. E il giocatore cui l’Europa è sempre stata più legata e per cui maggiormente ha inondato fiumi di lacrime miste a parole, è senza dubbio Dražen Petrović. Un’irripetibile sinfonia di passione, tiro e sudore durata 28 anni, composta dal “Mozart dei canestri”, forse il più forte giocatore ogni epoca al di qua dell’Atlantico.
E’ il 22 ottobre 1964, a Sibenik, città costiera dell’attuale Croazia e al tempo una Yugoslavia non ancora travolta dagli eventi, vede per la prima volta la luce il secondogenito della coppia dei signori Petrović, Biserka e Jole. Al pupo viene affidato un nome derivante dalla parola slava “dorogo”, che significa “perfetto”, e che sarà uno degli aggettivi maggiormente accostati al Dražen cestista. Come spesso accade, i bambini ancora in tenera età tendono ad imitare in tutto e per tutto le gesta dei fratelli più grandi ed un sentito grazie non sarà mai abbastanza per Aleksandar Petrović, la cui predilezione per la pallacanestro (cosa comunque alquanto consueta in terra croata e dintorni, per usare un eufemismo) avrebbe inconsciamente cambiato per sempre gli scenari mondiali di questo meraviglioso Sport. Il piccolo Dražen mostrò fin da subito una predisposizione naturale per la Pallacanestro a cui però in breve associò ore e ore di tiri, palleggi, “moves” compiuti ed affinati in una sorta di playground del piccolo porto dalmatico (che oggi conta circa 40mila anime), ma campetto che in realtà non andava tanto oltre l’essere un canestro posto su un palo, dinanzi ad un muro.
La leggenda inizia qui, sviluppandosi dalla mattina alla sera, con poche soste concesse al resto, perché la fame di vittoria (o il totale rifiuto della sconfitta, a seconda dei punti di vista) ha il primato su tutto e quando i successi nei campionati giovanili diventano scontati, assodato l’assoluto dominio tecnico-cestistico di Dražen, la soluzione più ovvia è la promozione nella prima squadra locale alla “veneranda” età di 15 anni, fianco a fianco con gente che potrebbe anche fargli tranquillamente da padre. Nel giro di 730 giorni i minuti da professionista crescono doverosamente e dopo la conquista dell’oro agli Europei Juniores il cognome Petrović è sulla bocca di scout (e non solo) che vanno dal Portogallo alla Russia, toccando la Scandinavia e più a sud l’Italia. Il “tre”, gesto di fede ortodossa, di vittoria e orgoglioso simbolo di patriottica appartenenza in terra slava/serba, è il numero magico per eccellenza e alla sua terza partenza dai blocchi della nuova annata sportiva, con la maglietta numero 8 della sua città, il ragazzino entra in totale trance agonistica per non uscirci più in ogni singolo giorno della sua vita futura. I punti abbondano facilmente oltre la quindicina ad allacciata di scarpe e la squadra inizia a volare, raggiungendo l’apice con la finale di Coppa Korac persa a Padova, nel 1982, per 90-84 contro i francesi del Limoges di Ed Murphy e Richard Dacoury. L’exploit di un club così piccolo e storicamente, si direbbe, minore fa innalzare molti sopraccigli; Dražen tuttavia continua ad avere molte difficoltà nell’accettare il faccia a faccia con la parola “sconfitta” e il giorno seguente, il pallone ed il canestro rischiano di essere i soli a vederlo per l’intero arco di 24 ore.
E’ il momento della stagione successiva: le beneficiate arrivano ormai ogni benedetta sera (si sfora oltre i 24 di media) e le finali conquistate saranno due, anche se altrettanti gli insuccessi (nuovamente contro Limoges in Korac e poi sulla strada verso il titolo yugoslavo, in realtà vinto proprio grazie a Dražen, ma portato via dalla federazione per motivi sinistri, forse politici, nella serie contro il KK Bosni di Sarajevo). Nel cartone e manga giapponese “Dragonball”, il protagonista (Goku) è un Sayan, cioè una razza (proveniente da un altro pianeta) di guerrieri i quali, allorchè sconfitti, riprendono le loro forze diventando ancora più forti, come se dagli smacchi e i fallimenti traessero maggior vigore per poi ripresentarsi dinanzi alle nuove battaglie con capacità innovative e sempre meglio affinate: “Petro”, come soleva essere chiamato Dražen, fu la trasposizione reale dei combattenti Sayan, perché due anni di beffe “finali” erano decisamente troppi e, nonostante la chiamata annuale dell’esercito per il servizio di leva, al suo ritorno sul parquet divenne “unstoppable” per chiunque. I trofei comunque sarebbe stato difficile vincerli sotto casa, così con un po’ di saudade ma il doppio di volontà, determinazione e sicurezza accettò senza esitazione l’offerta di Mirko Novosel, coach del Cibona Zagabria, la società croata per eccellenza, tra le cui fila presenziava anche una persona ben nota: il fratello Aleksandar. Beh, non durò esattamente tantissimo il periodo di adattamento, anche perché se ti trovi a giocare subito contro la tua “squadra del cuore” [ “La tua prima squadra è come il tuo primo amore; Sibenik rimarrà per sempre nel mio cuore”: Drazen dixit], difficilmente vergarne 56 è indicativo di timori o complicazioni di sorta. Irreale. Il Basket è la sua vita, l’amore per i tifosi una spinta in più. Col Cibona vince tutto ciò che gli capita tra le mani: che sia in campo regionale, nazionale o europeo poco cambia. I pugni e gli occhi alzati al cielo, in segno di liberazione e vittoria, di questo astro nascente del panorama cestistico, insieme alla sua capigliatura arruffata e al 10 della divisa, dominano d’ora in avanti la scena.
Wilt Chamberlain, una bestia di 216 centimetri, com’è noto, segnò 100 punti in una gara; Petrović 112, contro gli sloveni dello Smelt Olimpija e con 40/60 (!) al tiro. Scherziamo!? In bacheca ci finiscono agevolmente Coppe dei Campioni, Coppe delle Coppe, titoli e trofei slavi, successi contro gente del calibro di Arvydas Sabonis (il “Principe del Baltico” vestito di verde Zalgiris Kaunas) e Dražen Dalipagic (allora, sfavillante in Italia tra Udine e Venezia) oltre ad un’infinità di riconoscimenti personali. “MVP! MVP!” La sfiga è che se fosse nato a 6 ore di macchina di distanza verso nord-ovest, anziché Dražen avremmo “Dario”: così non è però e dunque i grandi team nostrani, Milano targata “Simac” (con The Coach, Dan Peterson, sul pino e Mike D’Antoni, J.B. Carroll e Dino Meneghin ad impazzare sul parquet), Cantù, Roma, Pesaro e Caserta, tutti sono costretti ad interpretare, nella scenografia, il ruolo delle città occidentali prima e dopo il passaggio del famoso re Unno, Attila. Le difese, com’è intuibile, furono costantemente messe a ferro e fuoco, conducendo qualcuno a rispolverare il soprannome di “Mozart dei canestri”, usato per la prima volta su “La Gazzetta dello Sport” dopo il centello e passa di cui sopra. Alla seconda stagione, con soli 21 anni alle spalle, le realizzazioni per incontro passano da 32 a 43 (un po’ “peggio” in Europa, visto che a referto scrive di regola 37 “miseri” punti), e se mai ve lo domandaste i minuti di gioco all’epoca erano sempre quaranta tondi. 1 vs 1 è assolutamente immarcabile, l’esitazione con cambio di direzione e velocità sotto le gambe ti immobilizza peggio del veleno di un cobra, il tiro è pura poesia, in caso di raddoppio ha un istinto per l’assist degno del miglior Steve Nash, le finte sono roba da fine illusionista, l’intelligenza cestistica ha raggiunto livelli inusitati e la paura, quella non l’ha nemmeno mai incontrata. Dall’altra parte dell’Atlantico intanto corrono le voci.
Trascorso un fantastico quadriennio, Dražen sente la necessità ed il bisogno di nuove sfide e, pur portando sempre nel cuore i momenti vissuti dentro la futura “Dražen Petrović Basketball Hall”, opta per il blasone di una squadra come il Real Madrid che all’elevata competizione affianca, ad ogni modo, due soldini mica da ridere: ma la passione va oltre il vil denaro. La limitatezza del linguaggio prorompe tutta d’un colpo, in quanto il fiume di aggettivi finisce per seccarsi nel giro di qualche mese. Le stesse meraviglie mostrate col Cibona “Petro” le riproduce tali e quali con la “camiseta blanca” numero 5: LeBron James oggi è il “Re”, Dražen Petrović allora era l’“Imperatore”. Nella finale 1989 di Coppa delle Coppe (European Cup) disputata ad Atene, la Snaidero Caserta di Nando Gentile e Oscar Schmidt (la “Mao Santa”, il più forte sportivo brasiliano di sempre senza il pallone tra i piedi) perde al supplementare 117-113 per cause di forza maggiore o, in altri termini, per mano di Dražen e delle sue 62 perle. Altri pugni al cielo, altri scaffali riempiti, altro desiderio che brucia nell’anima. Il Real se ne innamora perdutamente ma la scelta effettuata da Portland un paio di anni prima rappresenta l’irresistibile tentazione, l’ultimo round in cui eccellere rivaleggiando con i giocatori più forti del pianeta.
Nella “città delle rose” resta dal 1989 all’inizio del 1991, raggiungendo subito la possibilità di vincere il titolo (andato poi ai “Bad Boys” di Detroit), ma rimanendo anche a lungo seduto, con un minutaggio nemmeno vicino ai 20’ di impiego medio, dietro i vari Clyde Drexler e Terry Porter. I Blazers erano stati illuminanti nello sceglierlo al Draft, ma furono altresì ciechi nel non voler affidare l’arancia ad uno che rimaneva pur tuttavia un europeo di 1 metro e 95 per 88 chili in mezzo ad una comunità di “fratelli”. Con la Nazionale slava, un anno dopo aver conquistato la medaglia più preziosa agli Europei disputati in casa, si toglie però lo sfizio di vincere i Mondiali sul suolo argentino, asfaltando gli Urss nel match per l’oro, in una rivincita della finale delle Olimpiadi di Seoul. I Nets annusarono l’odore di affare e senza eccessivi sforzi per convincere chi di dovere, gli garantirono l’occasione ed il contesto giusti in un giorno di gennaio qualunque, “barattandolo” per una futura prima scelta di Lotteria. Cambia la costa, cambia il numero di maglia (che dal 44 diventa il 3: ricordate la storiella di prima?), cambiano i risultati e cambia soprattutto la Yugoslavia. L’orgoglio croato diventa libero ed indipendente e alla stessa maniera Dražen rompe le catene rapendo gli sguardi di tutta America. L’amore per la pallacanestro, impossibile da sopire, lo spinge ad osare sempre di più: 20 di media il primo campionato intero, 23 il secondo (con la perla di una nottata di post season chiusa a quota 44) ed un tiro da tre “che spacca”. Nel New Jersey tornò anche a soffiare la brezza salubre dei play off. Nel mentre poi addirittura insidia, con i colori panslavi dell’ “Hrvatska” sul petto, il Dream Team americano alle Olimpiadi di Barcellona ’92, sparando 24 punti in finale al cospetto di “Sua Maestà” Michael Jordan, col quale tra l’altro ci furono scintille e contatti ripetuti durante tutto l’arco di gara. Ad ogni modo: ora sì, è ufficialmente tra i migliori al mondo. Il contratto firmato coi “cugini di NYC” va quindi in scadenza e per una serie di problemi (con la dirigenza) e circostanze, si ritrova libero di accasarsi in una formazione che possa ambire all’anello Nba. In realtà “Petro” continua a lamentare una disparità di trattamento nei suoi confronti, quasi non fosse considerato degno del livello degli altri All-Star “in the League” solo perché non-americano. Germogliano pure voci di contratti e assegni in bianco lasciatigli a completa disposizione da parte di alcune superpotenze europee, in zona Pireo soprattutto. A 28 anni Dražen, formidabile come non mai, è ad un bivio importante della sua vita e se è abitudine dire che “la notte porta consiglio”, per lui i suggerimenti provengono dalla magica atmosfera della Nazionale e dall’amore della sua famiglia. L’inimmaginabile però è in agguato dietro l’angolo.
Il 7 giugno è attualmente giorno di lutto nazionale in Croazia poiché in quella stessa data dell’anno 1993, a nord di Ingolstadt, nei pressi di Denkendorf, Germania, in un tratto maledetto della “Bundesautobahn 9” che collega Berlino con Monaco, si è spento per colpa di un incidente stradale l’uomo più amato di sempre dal popolo croato, un giocatore di Pallacanestro che ha riempito di gioia il cuore di chi l’ha visto evoluire sui campi di tutto quanto il mondo. Aveva da poco disputato la sua ultima partita con l’adorata maglia patriottica a Wroclaw (Polonia) contro la Slovenia, anche se per guai fisici sarebbe dovuto mancare. L’ultimo bacio all’amata retina concluse la parabola di un tiro dalla lunetta. Il fato ha voluto che, anziché tornare col gruppo, il leader di quel team dovesse affrettare e modificare l’itinerario di rientro, in macchina, causa quella che a scuola era la più gettonata tra le giustificazioni da libretto: “motivi personali”. Stava riposando Dražen nella vettura, la cintura era slacciata perché gli dava fastidio, insieme a lui c’erano la fidanzata Klara Szalantzy (di cinque anni più giovane, modella e giocatrice di basket; diversi anni dopo sposerà il calciatore Oliver Bierhoff, visto in gran spolvero con le maglie di Udinese e Milan) al volante ed un’altra (ex) giocatrice, Hilal Haene, di nazionalità turca, entrambe residenti a Monaco. Il cielo intuì qualcosa e la pioggia, accompagnata in quel dannato pomeriggio da una fastidiosa nebbia, iniziò a scendere lacrimevolmente nei dintorni della splendida cittadina bavarese. Verso le 17:20, ora locale, le acque del Danubio fermarono per un momento il loro flusso, immobilizzate dal rumore derivante dallo schianto di una Volkswagen Golf color bordeaux contro un camion che aveva appena sbandato cercando di evitare un altro automezzo e che, dopo aver distrutto il guard-rail, aveva fermato la propria corsa in mezzo alla carreggiata opposta. Un brivido spaventoso quindi percorse per un interminabile istante la schiena dell’universo.
Era caparbio “Petro”, dannatamente caparbio: si era sempre allenato sino allo sfinimento, compiendo ogni giorno eterne sessioni di tiro (quota uno più tre zeri alla voce “tentati” era d’ordinanza) e rimettendosi perennemente in sesto ogni volta che una situazione lo costringeva a stare sulle ginocchia. Quella volta tuttavia non riuscì più a rialzarsi da terra, nemmeno con l’aiuto dei soccorsi, mentre le due donne si salvarono miracolosamente nonostante il terribile impatto, riportando solo qualche trauma fisico. Willis Reed, lo storico capitano degli unici due titoli Nba targati New York Knicks, all’epoca rivestiva la carica di general manager dei Nets e col cuore in gola dichiarò alla stampa che per lui era “come aver perso un figlio”. Aleksandar “Aza” Petrović, invece, fu depredato proprio del suo amato fratellino, che pure lui comunque vedeva come assoluta leggenda ed orgoglio croato: “Možda to nije važno ovdje u Americi, jer vi imate mnogo velikih igrača ali u zemlji od 4 miliona njegovim odsustvom hrvatska košarka ide tri koraka unazad”. [“Forse non è importante qui in America, perché ci sono un sacco di grandi giocatori, ma in un paese di 4 milioni di abitanti la sua mancanza porta il basket croato ad indietreggiare di tre passi”]. Al dolore dei famigliari quindi si unì il mondo intero simbolicamente rappresentato da tutti i grandi campioni dello sport, Jordan compreso. Uno di questi, Goran Ivanišević, altro fenomeno croato ma in campo tennistico, nel 2001 dedicò commosso il suo unico, fantastico successo a Wimbledon contro l’australiano Patrick Rafter, che lo portò fino al quinto set prima di cedere dopo tre estenuanti ore di gioco, alla memoria dell’amico scomparso otto anni prima. Il cimitero “Mirogoj” di Zagrabia fu scelto per ospitare la salma dell’indimenticabile campione, omaggiato ancora nel 2002 dall’Nba che lo inserì senza esitazioni nella Hall of Hame, l’Olimpo del Basket mondiale, sotto l’appellativo di “Mozart of basketball”.
E’ andata così, la strada l’ha portato via e l’ha tramutato in leggenda più di quanto non fosse già diventato, ma lo spartito del “genio di Sibenik” non smetterà mai di risuonare nelle teste e nei cuori di tutti e non è difficile immaginarlo tirare e giocare dovunque si trovi adesso, in nome di quel grande amore di cui si innamorò a prima vista e tramite il quale stregò l’intero pianeta. Era proprio perfetto…
Hvala Dražen