domenica 20 dicembre 2009

Malik Sealy





Passarono sei mesi, altro incidente d’auto e altro lutto che sconvolse la Lega del commissioner David Stern. Ogni tanto la giustizia divina tende ad avere atteggiamenti perlomeno incomprensibili, altrimenti non si spiegherebbe come Malik Sealy, guardia/ala dei Minnesota Timberwolves, sia potuto morire in una collisione causata dal guidatore ubriaco di un “pickup truck”, rimasto al contrario vivo, con solo qualche ferita alla testa (stessa positiva sorte toccata al malcapitato automobilista che vide piombarsi addosso Bobby Phills).


Figlio di Sidney, una guardia del corpo di Malcolm X (o anche conosciuto come El-Hajj Malik El-Shabazz, da cui è stato preso il nome per il bimbo di casa Sealy), e Ann, nato e cresciuto nel Bronx, col background tipico di un rapper della East Coast, ma con una personalità ed un cuore che hanno fatto costantemente rima con generosità, bontà ed abbondanza: al pari di Bobby infatti, Malik ha sempre anteposto gli altri al proprio “io”, mettendo davanti a tutto la famiglia, il gruppo, pensando prima alla crescita di un giovanissimo Kevin Garnett che alla sua decina di punti serale o al contratto più o meno milionario (e proprio con l’ultimo firmato decise di rimanere ancora a Minneapolis per amore verso i compagni di squadra e la città). Il numero 2 posto sul retro della “jersey” racchiude anche questo. K.G. aveva dato una festa per il suo compleanno quella sera del 20 maggio 2000 e intorno alle 3.30 di mattina Malik stava facendo ritorno verso le braccia della moglie Lisa e il dolce respiro del figlioletto di tre anni, Malik “Remi” Remington, cullato dal letto. “The Big Ticket” l’aveva ringraziato per l’ennesima volta, non solo per il regalo o la sua presenza concreta al party, ma per tutto quello che rappresentava, al pari di Sam Mitchell [1]: un amico sincero e un padre come non l’aveva mai avuto, oltre che un idolo cestistico dei suoi anni a Mauldin, South Carolina. Quindi si lasciò downtown alle spalle. La cintura non allacciata, il sedile piegato a circa 130° in pieno “american-black style”, il suo Range Rover era privo di Air Bag, chi va a pensare che qualcuno possa prendere quel tratto della “Highway 100” di St. Louis Park, Minnesota, con annessi lavori nella seconda corsia, in contromano? No, no, impossibile. No way.


Un uomo troppo forte Malik, uno spirito creativo non secondario che lo aveva portato ad incidere la canzone rap “Lost in the Sauce” (contenuta all’interno dell’album “Basketball’s Best - Kept Secret” composto insieme ad altri giocatori Nba quali Shaquille O’Neal e Gary Payton), a creare una linea di abbigliamento, “Malik Sealy XXI Inc.”, e anche a recitare in diversi telefilm (ex. “The Sentinel”, trasmesso per anni dalla Rai in Italia) oltre che in una pellicola (“Eddie”) al fianco di “Sister Act”, al secolo Whoopi Goldberg; il Bronx vero, non quello dei film, come palestra di vita a partire dal 1 febbraio 1970; la crescita fino a raggiungere i due metri di altezza, quattro stagioni sensazionali alla St. John’s University, la scelta n.12 nel draft del 1992 da parte dei Pacers e gli ultimi play off, conclusisi pochi giorni prima contro la Portland di ‘Sheed [2] e Pippen [3], trascorsi a oltre 12 punti in 30 minuti di utilizzo medio, lui che in fondo resta soprattutto un grande difensore; cinque giorni dopo la scomparsa di Bobby Phills aveva messo a segno un buzzer-beater di tabella a tempo quasi scaduto proprio versus Indiana, replicando il canestro sulla sirena realizzato in dicembre contro Orlando. In quella stagione a cavallo tra i due millenni, inoltre, Malik non aveva saltato nemmeno una gara. No, no, non può finire così! Siamo solo nel secondo quarto della sua esistenza. Poi..


Ricordo un articolo sulla “Gazza in rosa” nel tragitto verso la scuola. “Non ci credo”. Souksangouane Phengsene: questo il nome del folle guidatore ubriaco. Ho solo più pensato: “bastardo”. La sentenza è stata quattro anni da scontare in gattabuia e gliene hanno pure abbuonato uno. Era già stato fermato nel 1997 a Des Moines per guida in stato di ubriachezza; l’avrebbero arrestato altre due volte in seguito a quel maledetto giorno: l’ultima condanna ne vale otto dentro. “Che giustizia è? Siamo matti? Questo avrebbe potuto e in futuro potrà ancora uccidere qualcuno…pazzesco…”. Il mondo d’oggi va così; male ma così. Malik però, sono sicuro che l’abbia già perdonato da lassù. Lui che amava stare tra i ragazzi e spiegare il valore dello sport, l’importanza della vita, l’amore verso il prossimo. La sua tomba viene posta nel “Ferncliff Cemetery and Mausoleum”, che diventa automaticamente il suo playground personale: lì è stato cremato quel visionario di John Lennon; lì si ergono perennemente orgogliosi i resti di Malcolm X, l’idolo della famiglia Sealy. In classe medito e stento ancora a crederci nonostante siano già trascorse più di 24 ore dalla tragedia. A casa accendo tele e decoder: la maglia #2 issata verso il cielo al Target Center, le lacrime e la voce singhiozzante dei suoi amici, la scritta indelebile “2Malik” sulle scarpe di Garnett, e quella ancora più significativa, poco tempo dopo, sul corpo dello stesso K.G e dell’altro “figlio” Joe Smith [4]: “Only God can Judge me. Rest in Peace MS2”. Come per BP, la musica ha però alzato il suo volume dal profondo. Un verso della lirica di Malik dice, “life’s just one big jumpshot”… tranquillo Malik, vivrai per sempre nel meraviglioso fruscìo della retina e nel cuore di chi ti ha visto anche solo una volta ridere in tutta la tua genuinità.



Note:


1- Il primo allenatore del “Mago” Bargnani nella Nba. A memoria anche il più criticato e vituperato vincitore del premio di “Coach of the Year” nella storia della Lega: correva la stagione 2006/2007, i Raptors avevano appena vinto il loro primo titolo divisionale e già i “contro” a tratti sembravano superare i “pro”. Poi arrivò un quadriennale messo subito nero su bianco; una stagione più altalenante del previsto, per usare un eufemismo; un primo turno di playoff non indimenticabile salutato in anticipo per mancanza di kryptonite da opporre a “Superman”, al secolo Dwight Howard; e infine 17 gare della nuova Regular Season chiuse con record negativo. I bagagli glieli hanno recapitati la sera stessa del’ultima debacle.


2- Rasheed Wallace. Difficile non esserne a conoscenza. Un “tecnico”, inteso come punizione arbitrale, perennemente pronto ad accadere ma anche un talento fuori portata per il 99% dei bipedi terrestri. Unico nel suo genere e ineguagliabile. Come dicono di là: “Sheed happens”…


3- Fa Scottie di nome, ha fatto la spalla di Michael Jordan nei sei titoli vinti con Chicago. Il miglior secondo violino “ever” ma con capacità (difensive + offensive) da prim’attore. Frenabile solo dall’emicrania. Merita un bel posticino nel tempio di Springfield…


4- Rinomato per due cose: l’essere stato una delle meno entusiasmanti prime scelte assolute al draft di sempre (intendiamoci: Kwame Brown e Michael Olowokandi sono irraggiungibili) e l’essere stato al centro del vergognoso “caso Minnesota Timberwolves”, coi quali si accordò per firmare un contratto ad un valore molto più basso di quello di mercato, con in cambio la promessa di futuri pagamenti milionari al momento dell’estensione dello stesso accordo, in modo da permettere alla franchigia altri acquisti di rilievo a costi altrimenti impossibili da sostenere visto il limite posto dal “salary cap”. Ciononostante è rimasto un giocatore rispettato nei circoli Nba e da qualche stagione a questa parte anche uno dei più apprezzati veterani della Lega. Due dritte per sistemare la situazione gliele aveva date anche il buon Malik…


Bobby Ray Phills





20 dicembre 1969. Baton Rouge, profonda Louisiana, profondo Sud degli States: lì le giornate estive sono umide ed afose, a volte appaiono interminabili; i rumori della vegetazione al di fuori dei centri urbani rischiano di essere alla lunga insopportabili ma con l’abitudine si tramutano nella tua colonna sonora giornaliera; il clima forgia il carattere dei nativi di queste zone. La pronuncia allungata, l’andatura lenta, quasi rilassata o “molleggiata”, l’etica lavorativa, l’assaporare appieno le giornate come “modus vivendi”, il gospel, la palla da football come oggetto di culto. Cinque mesi prima, più esattamente il 21 luglio 1969, un tale di nome Armstrong, in compagnia dei colleghi Aldrin e Collins, scelse come nuova meta turistica la Luna. Veicolo di trasporto: shuttle “Apollo 11”. Agenzia di viaggio: NASA. Benvenuti ufficialmente nella nuova era.


12 gennaio 2000. Charlotte, North Carolina, lo Stato di Michael (ce n’è uno e basta…). “The Queen City”, al tempo dimora della franchigia Nba degli Hornets, è il centro finanziario, economico e punto di riferimento totale per lo Stato che comprende anche la “Tobacco Road”, campo di battaglia per l’eterna rivalità tra UNC e Duke e area dalla cui atmosfera si potrebbe estrarre l’essenza più pura del basket. In zona sono ammesse poche ciance: lavoro, maniche alzate e battismo vengono prima di tutto.


Tra queste due date, questi due luoghi è intercorsa la vita di Bobby Ray Phills II, un figlio come tanti del Mississippi, ma anche ragazzo d’oro che, partendo dalla non memorabile Southern University di Baton Rouge (28 ad allacciata di scarpe nella stagione da senior), tradusse in realtà un sogno chiamato Nba. Per completarlo però si rese necessaria un’ulteriore gavetta visto che, dopo la scelta al numero 45 del Draft 1991 ed una stagione vissuta da spettatore non pagante sulla panchina di Milwaukee, dovette ripiegare sui parchi di Sioux Falls, in CBA. Il martirio durò per fortuna lo spazio di qualche mese, fin quando non fu Cleveland, convinta dai 23 punti in dotazione a serata, a riportarlo nella Lega “cugina” di maggior prestigio. Sei anni ad affinare il mestiere in Ohio (intorno ai 10 punti di media), a cui ne seguirono tre da Hornet al fianco di gente come Glen Rice (1), Dell Curry (2), Tony Delk (3), Vlade Divac (4), Tyrone “Muggsy” Bogues (5) e David Wesley (6). Un percorso simile di raggiungimento dell’Nba lo compì Avery Johnson, natìo di New Orleans (sempre nello stato che prese il nome dal “Re Sole” Louis XIV), che dopo gli eccellenti anni alla Southern fu tuttavia trascurato da ogni scout e general manager: “undrafted” dunque, ma in grado di conquistarsi le luci della ribalta vincendo prima il titolo al fianco di Tim Duncan nel 1999 (finale contro i Knicks di “Spree” e Allan Houston) e poi aggiudicandosi giusto qualche anno dopo il premio di “Coach of the Year” al timone dei Dallas Mavs.


Ugualmente luci, ma non certo portatrici di gioia, furono invece quelle che Bobby si ritrovò di fronte nella mattinata del 12 gennaio dell’anno di apertura al nuovo Millennio: appartenevano ad un’auto, su West Tyvola Road nei pressi del Charlotte Coliseum (pochi chilometri a sud di downtown sostanzialmente), contro cui la Porsche 993 Cabriolet di BP si schiantò tragicamente dopo aver perso il controllo del mezzo. Il lavoro eziologico della polizia locale portò alla luce che Bobby stava guidando, con un limite di 45 miglia orarie (circa 70 km/h), oltre le 100 mph, 75 secondo altre fonti, per raggiungere la propria moglie Kendall, fin quando uno sbalzo della vettura non l’ha gettato in mezzo alle fauci del tragico destino. Alcune macchine più avanti c’era David Wesley, il compagno ed amico insieme a cui avrebbe dovuto recarsi all’appuntamento, considerata la presenza anche della moglie di quest’ultimo, il quale fu in seguito incriminato per guida incauta e spericolata, tanto che si pensò addirittura ad una gara di velocità tra i due, e la cui patente al momento risultava sospesa. Wesley comunque non realizzò immediatamente ciò che era appena avvenuto. Abbassato il volume della musica diede un’occhiata allo specchietto retrovisore, poi un’inchiodata: il viaggio mentale di Dante all’inferno doveva essere stato più piacevole. Coach Paul Silas, avvisato dell’accaduto, si recò sul posto del misfatto e vide la fiamma di Bobby spenta definitivamente tra le lamine accartocciate. A Wesley intanto sembrarono aver depredato lo spirito.


Due ore o poco più. Tanto ci volle per estrarre il corpo dalle macerie. Un fisico pittoresco (195 cm per 105 chili di soli muscoli) , tagliato su misura per i “tight end” della Nfl. Sul parquet era una guardia tiratrice dalla mano morbida (ruolo che si è costruito strada facendo a partire dalla Tuskegee High School, per la quale evoluiva in special modo da centro) e ottimo difensore (ben nota la risposta “Michael who?” alla domanda di un giornalista, che chiese se lui temesse affrontare Michael Jordan) , oltre che figura carismatica all’interno dello spogliatoio; al di fuori era invece uomo di grande intelligenza, devoto, altruista e disponibile (fondatore della “Bobby Phills Educational Awareness Foundation”, nel 1996, per l’aiuto di bambini meno fortunati), con un sorriso in grado di scioglierti l’anima, ma soprattutto padre di tre bimbi. Quella maledetta mattina però, il futuro oscurò le proprie carte e l’immagine di B.P. si sciolse nelle lacrime di chi lo amava. Il ritmo blando del ragazzo del Sud aveva aumentato le sue frequenze poco prima delle ultime note, ma la vera musica, quella che viene dal cuore, non muore mai e come direbbe Sean “P.Diddy” Combs: “I know you still living your life, after death” Bobby.



Note:


1- Superbo tiratore da (veramente) qualsiasi distanza e vincente sia a livello collegiale con Michigan, che al piano superiore con i Lakers di Kobe e Shaq. Se vi è mai capitato di giocare, prima del suo ritiro, ad uno dei vari “Nba Live” per Playstation o quant’altro allora avete capito con chi si è avuto a che fare…


2- Altro “shooter” balisticamente notevole (pure in ambito virtuale), il cui figlio Stephen, dopo aver creato maremoti in NCAA con Davidson University, esser diventato il protetto di “The King” e aver riscritto il record ogni epoca di bombe sparate, è finito all’irrazionale corte di Don Nelson @ Oakland. Un sincero in bocca al lupo.


3- “Tony Tiger”, o meglio noto come Tony Delk, sfoderò in maglia Suns anche una prestazione da 53 perle in 50’ contro suoi ex compagni di Sacramento. Nato a Covington, Tennessee, fu campione NCAA 1996 con la Kentucky di Pitino, che sconfisse la Syracuse University di Jim Boheim e John Wallace al termine di un torneo eccezionale in cui i Wildcats vinsero ogni gara di almeno sette punti (le prime quattro dai venti in su) e Tony fu eletto Most Outstanding Player (MVP sostanzialmente) della Final Four dopo i 24 che mandarono in archivio la stagione. L’Nba si è però rivelata più dura del previsto, vista la sua tendenza ad essere una guardia nel corpo di un play, e così il passo da possibile stella a gregario è stato breve. In seguito a tante difficoltà, è transitato poi dalle parti del Pireo, a domicilio del Panathinaikos con cui fece il grande Slam, anche se in maggio venne allontanato per problemi disciplinari e con la dirigenza. Il suo meglio (tra i Pro, of course) lo diede però proprio in quella fresca serata di gennaio del 2001, chiusa a 20/27 dal campo, senza nessun tentativo da oltre l’arco e facendo scendere più di una lacrimuccia a molti puristi del Gioco: “Impossible is nothing”.


4- Due mani all’europea che per un centro di quella stazza lì dovrebbero essere off-limits. Tra le varie peculiarità anche una lista di appellativi lunga quanto la sua lingua e la sua carriera. I più noti: “Marlboro Man”, per intuibilissimi motivi legati al consumo di sigarette, e “Flip-Flop Vlade”, perché gli anni passati nei pressi di Hollywood (L.A.) hanno lasciato significativi strascichi sul suo modo di giocare.


5- 160 centimetri di play tascabile per antonomasia. Insieme a Spud Webb ha riscritto le leggi di appartenenza alla Nba.


6- Grande amico di Bobby e più tardi capitano in quel di Charlotte. Finito quindi alla corte di LeBron James in Ohio, ha raggiunto in maglia Cavs la Finale Nba 2K7, poi persa vs gli Spurs di un fenomenale Ginobili, giocando sempre e comunque in memoria del suo “fratello” non di sangue.

Dražen Petrović





Le morti a noi più vicine inevitabilmente aumentano la nostra tristezza, sgretolando al contempo le nostre certezze. E il giocatore cui l’Europa è sempre stata più legata e per cui maggiormente ha inondato fiumi di lacrime miste a parole, è senza dubbio Dražen Petrović. Un’irripetibile sinfonia di passione, tiro e sudore durata 28 anni, composta dal “Mozart dei canestri”, forse il più forte giocatore ogni epoca al di qua dell’Atlantico.


E’ il 22 ottobre 1964, a Sibenik, città costiera dell’attuale Croazia e al tempo una Yugoslavia non ancora travolta dagli eventi, vede per la prima volta la luce il secondogenito della coppia dei signori Petrović, Biserka e Jole. Al pupo viene affidato un nome derivante dalla parola slava “dorogo”, che significa “perfetto”, e che sarà uno degli aggettivi maggiormente accostati al Dražen cestista. Come spesso accade, i bambini ancora in tenera età tendono ad imitare in tutto e per tutto le gesta dei fratelli più grandi ed un sentito grazie non sarà mai abbastanza per Aleksandar Petrović, la cui predilezione per la pallacanestro (cosa comunque alquanto consueta in terra croata e dintorni, per usare un eufemismo) avrebbe inconsciamente cambiato per sempre gli scenari mondiali di questo meraviglioso Sport. Il piccolo Dražen mostrò fin da subito una predisposizione naturale per la Pallacanestro a cui però in breve associò ore e ore di tiri, palleggi, “moves” compiuti ed affinati in una sorta di playground del piccolo porto dalmatico (che oggi conta circa 40mila anime), ma campetto che in realtà non andava tanto oltre l’essere un canestro posto su un palo, dinanzi ad un muro.


La leggenda inizia qui, sviluppandosi dalla mattina alla sera, con poche soste concesse al resto, perché la fame di vittoria (o il totale rifiuto della sconfitta, a seconda dei punti di vista) ha il primato su tutto e quando i successi nei campionati giovanili diventano scontati, assodato l’assoluto dominio tecnico-cestistico di Dražen, la soluzione più ovvia è la promozione nella prima squadra locale alla “veneranda” età di 15 anni, fianco a fianco con gente che potrebbe anche fargli tranquillamente da padre. Nel giro di 730 giorni i minuti da professionista crescono doverosamente e dopo la conquista dell’oro agli Europei Juniores il cognome Petrović è sulla bocca di scout (e non solo) che vanno dal Portogallo alla Russia, toccando la Scandinavia e più a sud l’Italia. Il “tre”, gesto di fede ortodossa, di vittoria e orgoglioso simbolo di patriottica appartenenza in terra slava/serba, è il numero magico per eccellenza e alla sua terza partenza dai blocchi della nuova annata sportiva, con la maglietta numero 8 della sua città, il ragazzino entra in totale trance agonistica per non uscirci più in ogni singolo giorno della sua vita futura. I punti abbondano facilmente oltre la quindicina ad allacciata di scarpe e la squadra inizia a volare, raggiungendo l’apice con la finale di Coppa Korac persa a Padova, nel 1982, per 90-84 contro i francesi del Limoges di Ed Murphy e Richard Dacoury. L’exploit di un club così piccolo e storicamente, si direbbe, minore fa innalzare molti sopraccigli; Dražen tuttavia continua ad avere molte difficoltà nell’accettare il faccia a faccia con la parola “sconfitta” e il giorno seguente, il pallone ed il canestro rischiano di essere i soli a vederlo per l’intero arco di 24 ore.


E’ il momento della stagione successiva: le beneficiate arrivano ormai ogni benedetta sera (si sfora oltre i 24 di media) e le finali conquistate saranno due, anche se altrettanti gli insuccessi (nuovamente contro Limoges in Korac e poi sulla strada verso il titolo yugoslavo, in realtà vinto proprio grazie a Dražen, ma portato via dalla federazione per motivi sinistri, forse politici, nella serie contro il KK Bosni di Sarajevo). Nel cartone e manga giapponese “Dragonball”, il protagonista (Goku) è un Sayan, cioè una razza (proveniente da un altro pianeta) di guerrieri i quali, allorchè sconfitti, riprendono le loro forze diventando ancora più forti, come se dagli smacchi e i fallimenti traessero maggior vigore per poi ripresentarsi dinanzi alle nuove battaglie con capacità innovative e sempre meglio affinate: “Petro”, come soleva essere chiamato Dražen, fu la trasposizione reale dei combattenti Sayan, perché due anni di beffe “finali” erano decisamente troppi e, nonostante la chiamata annuale dell’esercito per il servizio di leva, al suo ritorno sul parquet divenne “unstoppable” per chiunque. I trofei comunque sarebbe stato difficile vincerli sotto casa, così con un po’ di saudade ma il doppio di volontà, determinazione e sicurezza accettò senza esitazione l’offerta di Mirko Novosel, coach del Cibona Zagabria, la società croata per eccellenza, tra le cui fila presenziava anche una persona ben nota: il fratello Aleksandar. Beh, non durò esattamente tantissimo il periodo di adattamento, anche perché se ti trovi a giocare subito contro la tua “squadra del cuore” [ “La tua prima squadra è come il tuo primo amore; Sibenik rimarrà per sempre nel mio cuore”: Drazen dixit], difficilmente vergarne 56 è indicativo di timori o complicazioni di sorta. Irreale. Il Basket è la sua vita, l’amore per i tifosi una spinta in più. Col Cibona vince tutto ciò che gli capita tra le mani: che sia in campo regionale, nazionale o europeo poco cambia. I pugni e gli occhi alzati al cielo, in segno di liberazione e vittoria, di questo astro nascente del panorama cestistico, insieme alla sua capigliatura arruffata e al 10 della divisa, dominano d’ora in avanti la scena.


Wilt Chamberlain, una bestia di 216 centimetri, com’è noto, segnò 100 punti in una gara; Petrović 112, contro gli sloveni dello Smelt Olimpija e con 40/60 (!) al tiro. Scherziamo!? In bacheca ci finiscono agevolmente Coppe dei Campioni, Coppe delle Coppe, titoli e trofei slavi, successi contro gente del calibro di Arvydas Sabonis (il “Principe del Baltico” vestito di verde Zalgiris Kaunas) e Dražen Dalipagic (allora, sfavillante in Italia tra Udine e Venezia) oltre ad un’infinità di riconoscimenti personali. “MVP! MVP!” La sfiga è che se fosse nato a 6 ore di macchina di distanza verso nord-ovest, anziché Dražen avremmo “Dario”: così non è però e dunque i grandi team nostrani, Milano targata “Simac” (con The Coach, Dan Peterson, sul pino e Mike D’Antoni, J.B. Carroll e Dino Meneghin ad impazzare sul parquet), Cantù, Roma, Pesaro e Caserta, tutti sono costretti ad interpretare, nella scenografia, il ruolo delle città occidentali prima e dopo il passaggio del famoso re Unno, Attila. Le difese, com’è intuibile, furono costantemente messe a ferro e fuoco, conducendo qualcuno a rispolverare il soprannome di “Mozart dei canestri”, usato per la prima volta su “La Gazzetta dello Sport” dopo il centello e passa di cui sopra. Alla seconda stagione, con soli 21 anni alle spalle, le realizzazioni per incontro passano da 32 a 43 (un po’ “peggio” in Europa, visto che a referto scrive di regola 37 “miseri” punti), e se mai ve lo domandaste i minuti di gioco all’epoca erano sempre quaranta tondi. 1 vs 1 è assolutamente immarcabile, l’esitazione con cambio di direzione e velocità sotto le gambe ti immobilizza peggio del veleno di un cobra, il tiro è pura poesia, in caso di raddoppio ha un istinto per l’assist degno del miglior Steve Nash, le finte sono roba da fine illusionista, l’intelligenza cestistica ha raggiunto livelli inusitati e la paura, quella non l’ha nemmeno mai incontrata. Dall’altra parte dell’Atlantico intanto corrono le voci.


Trascorso un fantastico quadriennio, Dražen sente la necessità ed il bisogno di nuove sfide e, pur portando sempre nel cuore i momenti vissuti dentro la futura “Dražen Petrović Basketball Hall”, opta per il blasone di una squadra come il Real Madrid che all’elevata competizione affianca, ad ogni modo, due soldini mica da ridere: ma la passione va oltre il vil denaro. La limitatezza del linguaggio prorompe tutta d’un colpo, in quanto il fiume di aggettivi finisce per seccarsi nel giro di qualche mese. Le stesse meraviglie mostrate col Cibona “Petro” le riproduce tali e quali con la “camiseta blanca” numero 5: LeBron James oggi è il “Re”, Dražen Petrović allora era l’“Imperatore”. Nella finale 1989 di Coppa delle Coppe (European Cup) disputata ad Atene, la Snaidero Caserta di Nando Gentile e Oscar Schmidt (la “Mao Santa”, il più forte sportivo brasiliano di sempre senza il pallone tra i piedi) perde al supplementare 117-113 per cause di forza maggiore o, in altri termini, per mano di Dražen e delle sue 62 perle. Altri pugni al cielo, altri scaffali riempiti, altro desiderio che brucia nell’anima. Il Real se ne innamora perdutamente ma la scelta effettuata da Portland un paio di anni prima rappresenta l’irresistibile tentazione, l’ultimo round in cui eccellere rivaleggiando con i giocatori più forti del pianeta.


Nella “città delle rose” resta dal 1989 all’inizio del 1991, raggiungendo subito la possibilità di vincere il titolo (andato poi ai “Bad Boys” di Detroit), ma rimanendo anche a lungo seduto, con un minutaggio nemmeno vicino ai 20’ di impiego medio, dietro i vari Clyde Drexler e Terry Porter. I Blazers erano stati illuminanti nello sceglierlo al Draft, ma furono altresì ciechi nel non voler affidare l’arancia ad uno che rimaneva pur tuttavia un europeo di 1 metro e 95 per 88 chili in mezzo ad una comunità di “fratelli”. Con la Nazionale slava, un anno dopo aver conquistato la medaglia più preziosa agli Europei disputati in casa, si toglie però lo sfizio di vincere i Mondiali sul suolo argentino, asfaltando gli Urss nel match per l’oro, in una rivincita della finale delle Olimpiadi di Seoul. I Nets annusarono l’odore di affare e senza eccessivi sforzi per convincere chi di dovere, gli garantirono l’occasione ed il contesto giusti in un giorno di gennaio qualunque, “barattandolo” per una futura prima scelta di Lotteria. Cambia la costa, cambia il numero di maglia (che dal 44 diventa il 3: ricordate la storiella di prima?), cambiano i risultati e cambia soprattutto la Yugoslavia. L’orgoglio croato diventa libero ed indipendente e alla stessa maniera Dražen rompe le catene rapendo gli sguardi di tutta America. L’amore per la pallacanestro, impossibile da sopire, lo spinge ad osare sempre di più: 20 di media il primo campionato intero, 23 il secondo (con la perla di una nottata di post season chiusa a quota 44) ed un tiro da tre “che spacca”. Nel New Jersey tornò anche a soffiare la brezza salubre dei play off. Nel mentre poi addirittura insidia, con i colori panslavi dell’ “Hrvatska” sul petto, il Dream Team americano alle Olimpiadi di Barcellona ’92, sparando 24 punti in finale al cospetto di “Sua Maestà” Michael Jordan, col quale tra l’altro ci furono scintille e contatti ripetuti durante tutto l’arco di gara. Ad ogni modo: ora sì, è ufficialmente tra i migliori al mondo. Il contratto firmato coi “cugini di NYC” va quindi in scadenza e per una serie di problemi (con la dirigenza) e circostanze, si ritrova libero di accasarsi in una formazione che possa ambire all’anello Nba. In realtà “Petro” continua a lamentare una disparità di trattamento nei suoi confronti, quasi non fosse considerato degno del livello degli altri All-Star “in the League” solo perché non-americano. Germogliano pure voci di contratti e assegni in bianco lasciatigli a completa disposizione da parte di alcune superpotenze europee, in zona Pireo soprattutto. A 28 anni Dražen, formidabile come non mai, è ad un bivio importante della sua vita e se è abitudine dire che “la notte porta consiglio”, per lui i suggerimenti provengono dalla magica atmosfera della Nazionale e dall’amore della sua famiglia. L’inimmaginabile però è in agguato dietro l’angolo.


Il 7 giugno è attualmente giorno di lutto nazionale in Croazia poiché in quella stessa data dell’anno 1993, a nord di Ingolstadt, nei pressi di Denkendorf, Germania, in un tratto maledetto della “Bundesautobahn 9” che collega Berlino con Monaco, si è spento per colpa di un incidente stradale l’uomo più amato di sempre dal popolo croato, un giocatore di Pallacanestro che ha riempito di gioia il cuore di chi l’ha visto evoluire sui campi di tutto quanto il mondo. Aveva da poco disputato la sua ultima partita con l’adorata maglia patriottica a Wroclaw (Polonia) contro la Slovenia, anche se per guai fisici sarebbe dovuto mancare. L’ultimo bacio all’amata retina concluse la parabola di un tiro dalla lunetta. Il fato ha voluto che, anziché tornare col gruppo, il leader di quel team dovesse affrettare e modificare l’itinerario di rientro, in macchina, causa quella che a scuola era la più gettonata tra le giustificazioni da libretto: “motivi personali”. Stava riposando Dražen nella vettura, la cintura era slacciata perché gli dava fastidio, insieme a lui c’erano la fidanzata Klara Szalantzy (di cinque anni più giovane, modella e giocatrice di basket; diversi anni dopo sposerà il calciatore Oliver Bierhoff, visto in gran spolvero con le maglie di Udinese e Milan) al volante ed un’altra (ex) giocatrice, Hilal Haene, di nazionalità turca, entrambe residenti a Monaco. Il cielo intuì qualcosa e la pioggia, accompagnata in quel dannato pomeriggio da una fastidiosa nebbia, iniziò a scendere lacrimevolmente nei dintorni della splendida cittadina bavarese. Verso le 17:20, ora locale, le acque del Danubio fermarono per un momento il loro flusso, immobilizzate dal rumore derivante dallo schianto di una Volkswagen Golf color bordeaux contro un camion che aveva appena sbandato cercando di evitare un altro automezzo e che, dopo aver distrutto il guard-rail, aveva fermato la propria corsa in mezzo alla carreggiata opposta. Un brivido spaventoso quindi percorse per un interminabile istante la schiena dell’universo.


Era caparbio “Petro”, dannatamente caparbio: si era sempre allenato sino allo sfinimento, compiendo ogni giorno eterne sessioni di tiro (quota uno più tre zeri alla voce “tentati” era d’ordinanza) e rimettendosi perennemente in sesto ogni volta che una situazione lo costringeva a stare sulle ginocchia. Quella volta tuttavia non riuscì più a rialzarsi da terra, nemmeno con l’aiuto dei soccorsi, mentre le due donne si salvarono miracolosamente nonostante il terribile impatto, riportando solo qualche trauma fisico. Willis Reed, lo storico capitano degli unici due titoli Nba targati New York Knicks, all’epoca rivestiva la carica di general manager dei Nets e col cuore in gola dichiarò alla stampa che per lui era “come aver perso un figlio”. Aleksandar “Aza” Petrović, invece, fu depredato proprio del suo amato fratellino, che pure lui comunque vedeva come assoluta leggenda ed orgoglio croato: “Možda to nije važno ovdje u Americi, jer vi imate mnogo velikih igrača ali u zemlji od 4 miliona njegovim odsustvom hrvatska košarka ide tri koraka unazad”. [“Forse non è importante qui in America, perché ci sono un sacco di grandi giocatori, ma in un paese di 4 milioni di abitanti la sua mancanza porta il basket croato ad indietreggiare di tre passi”]. Al dolore dei famigliari quindi si unì il mondo intero simbolicamente rappresentato da tutti i grandi campioni dello sport, Jordan compreso. Uno di questi, Goran Ivanišević, altro fenomeno croato ma in campo tennistico, nel 2001 dedicò commosso il suo unico, fantastico successo a Wimbledon contro l’australiano Patrick Rafter, che lo portò fino al quinto set prima di cedere dopo tre estenuanti ore di gioco, alla memoria dell’amico scomparso otto anni prima. Il cimitero “Mirogoj” di Zagrabia fu scelto per ospitare la salma dell’indimenticabile campione, omaggiato ancora nel 2002 dall’Nba che lo inserì senza esitazioni nella Hall of Hame, l’Olimpo del Basket mondiale, sotto l’appellativo di “Mozart of basketball”.


E’ andata così, la strada l’ha portato via e l’ha tramutato in leggenda più di quanto non fosse già diventato, ma lo spartito del “genio di Sibenik” non smetterà mai di risuonare nelle teste e nei cuori di tutti e non è difficile immaginarlo tirare e giocare dovunque si trovi adesso, in nome di quel grande amore di cui si innamorò a prima vista e tramite il quale stregò l’intero pianeta. Era proprio perfetto…


Hvala Dražen

lunedì 23 novembre 2009

B-Ball Photos IV





Bamberg "Jako Arena" 24-25-26 agosto 2007, Torneo Internazionale con Italia, Russia, Portogallo e Germania: "Basketball Supercup".

Vinsero coach David Blatt e Andrei Kirilenko. Mi sembrò, dopo il match vs l'Italia (in cui Belinelli si infortunò quasi subito alla caviglia e Bargnani rimase fuori per turnover), che la squadra russa potesse ambire seriamente ad una medaglia (almeno) di bronzo nell'Europeo in programma qualche settimana dopo in terra spagnola. Sbagliai solo il colore del metallo. Blatt mise assieme una tela meravigliosa e la pennellata decisiva arrivò dai polpastrelli naturalizzati di J.R. Holden: la "Spagna che non poteva perdere" sprofondò in quel di Madrid davanti ad un'intera nazione. Un "golpe" incredibile.

P.S. L'Italia iniziò sostanzialmente da quell'Europeo a scoprire che il tunnel delle difficoltà era appena cominciato, anche se l'esplosione di B&B (Bargnani e Belinelli) fu un valido fumo nero negli occhi di tutti. Per altro, nella piacevole Bamberg, il Mago si trovò davanti Nowitzki e disputò la migliore partita in Nazionale che io gli abbia mai visto fare: fu devastante, abbondando oltre il ventello e infilando tutti i canestri decisivi. Oggi qualcosa è cambiato (in peggio), coach Recalcati non è ufficialmente più la guida tecnica della squadra e il futuro non è mai stato così incerto: è evidente che i fiumi di parole hanno fatto il loro tempo; ora servono fatti concreti. Pianigiani o meno...





*Somiglianze*


Kanye Omari West a sx [rapper e produttore discografico statunitense] & Baron Walter Louis Davis a dx [giocatore Nba attualmente a L.A. sponda Clippers]









sabato 21 novembre 2009

giovedì 19 novembre 2009

B-Ball photos III


"The Cage": tra West 4th Street & 6th Avenue nel Greenwich Village, Manhattan NYC
Altro playground, altra istituzione del basket da strada. Il perchè del soprannome è abbastanza ovvio ed il livello del gioco rimane tutto l'anno altino. Dal 1977 va avanti "The West 4th Street League", un torneo che fu creato da un guidatore di limousine, tale Kenny Graham. Requisiti: voglia, trash-talk e zero paura."That's BasketBall City, baby!"




Eagles 1990 Cantù - Sturm und Drang
La prima foto è proprio mia, la seconda l'ho recuperata dal web (perchè penso riesca a mostrare e in qualche modo concretizzare la pura essenza dell'arte del tifo). In Italia di curve così ne sono rimaste poche, forse si può farle stare sulle dita di una mano. Al Pianella i cori per i giocatori si fanno assai di rado, perchè prima di tutto viene la squadra: "lotta sempre e vincerai. Non ti lasceremo mai!". Una fede incrollabile, l'orgoglio di averla; l'onore da mantenere, col sudore e con il cuore. In questa zona della Brianza si vive di emozioni e fidatevi che quelle che regala il Pianella sono di un'altra categoria.
Un coro in particolare mi è rimasto dentro: "Ricordo quando ero piccolino-mio padre mi portava al Pianella-vedendo quella curva ho capito-quant'era importante fare il tifo---da allora tanti anni son passati-ma quei colori non li ho mai lasciati-ed anche se mi costerà fatica-io tiferò Cantù, io tiferò Cantù, io tiferò Cantù tutta la vitaaa! ---ma perchè?-ma perchè?-ma perchèè?-mi domandano perchè?-perchè ovunque tu sarai-noi saremo con te!"
Ogni volta brividi.




"New Orleans Arena", 25 agosto 2005
Quattro giorni dopo il mondo conobbe la forza devastante dell'uragano Katrina. "The Big Easy", entusiasmata nella stagione precedente da Earl "J.R." Smith III (raffigurato nella gigantografia di sopra, ed oggi in forza ai Denver Nuggets), era appena divenuta la città di Chris Paul ed un grande scossone, in meglio, lo si pronosticava solo per le sorti della franchigia Nba targata Hornets. Noi riuscimmo ad aggirare l'uragano grazie alle previsioni dei telegiornali e dei meteo locali e a raggiungere le zone più sicure della Louisiana prima e della Florida poi. Successe tutto nel giro di pochissimo e fu assolutamente incredibile. Ma lo rimane tutt'ora.

martedì 17 novembre 2009

Il mio punto di vista (letteralmente) sul basket...B-Ball Photos 2




The Palestra. Luogo sacro e "Cattedrale" del college basketball, situata presso la University of Pennsylvania. Arena forgiata dalle centinaia di battaglie tra i cinque top team philadelphiani: Penn, Villanova, Saint Joseph's, La Salle, Temple.



Gli 8.722 seggiolini di The Palestra profumano di storia cestistica come pochi altri posti al mondo. Le sfide della Ivy League, come quelle del torneo NCAA, e i favolosi derby infracittadini hanno infatti infuocato la Città dell'Amore Fraterno da decenni e sopra questo parquet hanno compiuto le prime imprese fior fior di giocatori. Uno di essi, seppur a livello liceale (Lower Marion HS), è stato tale Bryant Kobe...
Entrare a The Palestra, per chi volesse, è un discreto problema, perchè le porte sono solitamente bloccate ed apribili solo con le tessere magnetiche. Piccolo consiglio: cercare qualche "addetto" nell'adiacente stadio di football oppure, con un pò di cu.., ehm, fortuna, trovare qualche giocatore di basket/volley dell'università (Dio benedica quello che avevo incontrato io...). Ah già, inutile fare 1 (2 o 3.....) giri della struttura: l'ingresso è esclusivamente quello frontale.









Boston e Springfield.





Due luoghi del Massachussets accomunati da una cosa precisa: la Hall of Fame. A Springfield c'è la sua casa vera e propria; a Boston c'è (stato) uno dei suoi più grandiosi ed immortali inquilini: Larry "Legend" Bird.








Holcombe Rucker Park, NYC.





La "Santa Sede" dei playground non solo newyorkesi, ma anche mondiali. The Goat, The Hawk, Skip To My Lou, Pee Wee, The Abuser, The Pearl, Half Man - Half Amazing, The True Warrior...chi più ne ha più ne metta...perchè: "Al Rucker non esistono nomi, solo soprannomi".





Consiglio personale: guardare 'Gunnin' For That #1 Spot'...tra i protagonisti del documentario, ambientato principalmente proprio al Rucker, anche Brandon Jennings e Michael Beasley...













Coney Island, "the other Garden".




Qui vicino furono girate le scene finali del film "Warriors" ("I Guerrieri Della Notte" il titolo italiano) di Walter Hill, ma la suddetta zona è stata (ed è tutt'ora) la signoria della decennale dinastia dei Marbury. Il più famoso? Stephon "The Future" Marbury, dominatore del playground a partire già dai primi anni dell'adolescenza. Gli altri? I cugini Jamel Thomas (principesco tiratore visto a Biella, Teramo, Siena e Napoli) e Sebastian "Bassy" Telfair (oggi a L.A., sponda Clips). Il prossimo? Ethan Telfair...parola dei cugini...

Il mio punto di vista (letteralmente) sul basket...B-Ball Photos 1



Chris Jackson, meglio conosciuto come Mahmoud Abdul-Rauf, ai tempi di Roseto.(Qui all'All Star Game di Torino insieme all'ex napoletano e udinese Mike Penberthy).
Nonostante la sindrome di Tourette un autentico manuale vivente del Gioco.
Sempre All Star Game al PalaRuffini di Torino. Stavolta però,omaggio da parte della Nazionale Italiana al compianto Enrico "Chicco" Ravaglia (davanti a tutti l'amico Poz con le lacrime agli occhi).

Un giocatore ed un sorriso unici portati via troppo presto. "Vivere nel cuore di chi resta vuol dire non morire mai...Bye". Striscione Eagles Cantù nel derby con Varese: 8 gennaio 2000 .




Nel corridoio che circonda il cuore di "The Palestra" @ Philadelphia c'è, tra le tante foto e cimeli, lo stendardo della storica vittoria dei Wildcats nel Torneo NCAA 1985.
Coach: Rollie Massimino. Leggenda. Sul parquet: Ed Pinckney. Eletto poi "Most Outstanding Player". Villanova, numero 8 della sua parte di tabellone, raggiunge incredibilmente le Final Four con sede a Lexington (Kentucky) e dopo aver fatto fuori Memphis State, vince anche con la favoritissima Georgetown di Patrick Ewing. 66-64: uno degli upset più sorprendenti della storia del college basketball.


Lo storico maglione rosso indossato da Coach Bob Knight nei suoi gloriosi anni sul pino della Indiana University.
Personaggio esuberante, controverso e geniale fino all'eccesso. Come lui non ne esistono altri e non sono mai esistiti. Una frase del Coach dal libro di Joan Mellen 'Bob Knight: His Own Man' : "It's a simple, goddamn thing. I just say, 'Hey, kid, goddamn it, be the best player you can be' "




Bobby Simmons fuori dalla palestra estiva più competitiva e "cool" degli Stati Uniti (è stata spesso casa, ad esempio, di MJ): "Hoops The Gym".
B-Sim, all'epoca ai Clippers(Most Improved Player nel 2005), oggi gioca per i derelitti New Jersey Nets, dopo aver strappato un bel contrattone ai Milwaukee Bucks gli anni passati.
Hoops The Gym, nel quartiere di West Loop, Chicago (1380 W. Randolph Street) è luogo frequentatissimo dai giocatori Nba, chicagoani o meno. Quando sono passato io si stava allenando anche Juwan Howard, ex Mavs e oggi a Portland, ed è qui che Ron Artest fece saltare un paio di costole al rientrante (ai Wizards) Michael Jeffrey Jordan.
"Hoops the Gym Stadium Club is one of Chicago's finest private basketball gymnasiums, available for private group rental 24 hours a day, 7 days a week for between $90 and $100 an hour. No membership is required. Conveniently located downtown, this club features a three-court gymnasium with 30-foot ceilings, state-of-the-art lighting, maple flooring and full-service locker rooms. A first-floor party room and mezzanine-level skydeck with skybox are also available for rental. The courts can be used alone for basketball or volleyball, or in combination with the event areas to create an ideal setting for corporate events, fundraisers, tournaments or birthday parties." da chicago.metromix.com

Where Eagles Happen

Gara 4 Play off: Cantù vs Roma

Nba business...A.I.

Breaking news. Fonte: ESPN.COM.

“The Allen Iverson experiment with the Memphis Grizzlies is over.


Memphis announced Monday that the team has ended its one-year contract with the 10-time All-Star and former league MVP in what it called a mutual agreement. Iverson was not placed on waivers by the 6 p.m. ET deadline on Monday so is expected to be waived on Tuesday, a league source told ESPN.com's Chris Sheridan.


Under the agreement, Iverson will receive only a fraction of the $3 million he was scheduled to earn.”


Tre partite. Ecco quanto è durata l'esperienza nel Tennessee di Allen I.


Che i rapporti con l'ambiente si fossero ben presto deteriorati era chiaro; che in breve si sarebbe giunti ad una risoluzione anche. The Answer adesso rischia di fare la fine di Latrell Sprewell, sempre che una "pazza idea" e uno stilista non lo salvino...


Three things you didn't know about Iacopo Squarcina

Did you know that Iacopo Squarcina...
  1. Translates to the number 9 in numerology
  2. Has the Eurasian Three-Toed Woodpecker as their Power Animal
  3. Shares their name with a guesstimated 0 Americans?
See more at http://www.isthisyour.name

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lunedì 16 novembre 2009

Ora si: Brandon Jennings = The Future



Va bene che Fiba ed Nba sono due universi lontani miliardi di anni luce; va bene che di fronte c'era la "difesa" di coach Nelson e Golden State; va bene che ogni tanto qualcuno veda comparire la "Madonnina dei canestri" sopra il tabellone e resti in trance per 48'; va bene tutto. Ma Brandon Jennings = 55 ?!?


Che prestazione da parte del ragazzo da Compton...A Roma, però, mi sa che se lo ricordavano un filino diverso...


Conseguenza.

La domanda che sorge spontanea è: ma se adesso agli "High Schoolers" americani questo sembra un facile 1+1 (cioè: B.J. è andato a giocare in Europa un anno ed è tornato così, allora anch'io...), non è che già dalla prossima stagione il flusso diretto dalla HS al nostro basket si rifocillerà di nuovi elementi?

Nba business...






Breaking news. Fonte: NBA.COM

"Charlotte Bobcats general manager Rod Higgins announced today that the team has acquired guards Stephen Jackson and Acie Law from the Golden State Warriors in exchange for guard Raja Bell and forward Vladimir Radmanovic."

Captain Jack fa dunque le valigie e trova sistemazione presso coach Larry "play in the right way" Brown...inutile proseguire perchè solo il tempo ci dirà cosa deve accadere...
Ad occhio, senza conoscere contratti, salary cap o cifre circolanti, Golden State sembra aver deciso di puntare ancora più forte sui free-agent dell'estate prossima ventura; inoltre, uno come Raja Bell non lo butterei via tanto facilmente...mentre Vlado...diciamo che il suo l'ha già dato, ecco...




*Somiglianze*


Calvin Cordozar Broadus Jr. aka "Snoop Dogg" [rapper, attore e produttore discografico] & Peter John Ramos ["Currently plays for Piratas de Quebradillas in Puerto Rico Professional League (BSN)"]

sabato 14 novembre 2009

Pagine di Basket___4





- Un altro spazio della mia libreria cestistica è occupato da BasketBiz: I Signori del Gioco di Eldon L. Ham. La sintesi, presa dal sito “libreriadellosport.it” (e sostanziale copia di quella presente sul testo originale), recita così: “Un libro sull'irresistibile storia dell'ascesa della National Basketball Association come non era mai stata raccontata prima. Porta alla luce decenni di manipolazioni dietro le quinte e di battaglie campali che hanno forgiato la lega e generato una macchina da spettacolo che sembrava perfetta, prima del brutto pasticcio di egoismi e bigliettoni che ha portato alla quasi distruzione del 1998. I Signori del Gioco spiega nel dettaglio come gli insider, quali David Stern, Rod Thorn, Jerry Reinsdorf, Ted Turner ed altri, hanno collaborato con la superstar Michael Jordan, il suo agente David Falk, la Nike ed i media televisivi nell'architettare la più grande società per la commercializzazione dello spettacolo nella storia dello sport professionistico.”



Dalla stagione del lockout qualcosa è naturalmente cambiato e a svariati quesiti posti nel libro il tempo ha dato la sua risposta. Ciononostante, a forza di sentire pronunciare frasi come “it’s just business”, il rischio di salutare definitivamente l’anima più pura del gioco rimane ben presente nell’aria. La crisi globale dell’economia inoltre costringe a rimanere sempre all’erta e come si chiede Ham, “la Nba sarà in grado di mantenere la sua grande popolarità ed evitare il tracollo finanziario?”. Per fortuna, loro e nostra, esistono i vari Kobe, Dwyane e LeBron, eredi diretti di Sua Maestà il 23, ed altri sono già in ‘programmazione’.



L’autore fa i conti con le guerre interne ed esterne vissute dalla Lega fin dalle origini, presentandole con “uno sguardo imparziale”: l’esito regala ad un lettore come me una nuova, inesplorata, prospettiva del mondo del basket USA, troppo spesso visto solo come ricoperto di rose e fiori. Non è così; non lo è mai stato. Niente però serve a spiegare meglio le cose di un resoconto completo della realtà dei fatti: in questo, c’è da dire, Eldon Ham è un maestro.



Ecco un estratto dal capitolo:



“Il complotto del tetto salariale”



“Quando Minnesota scelse il rookie Kevin Garnett, che proveniva dall’High School (e poi firmò un contratto record di 126 milioni di dollari), Garnett non solo si conquistò le copertine, ma attirò anche l’attenzione di tutti i proprietari Nba, i quali finalmente capirono a che punto erano arrivati: alla perdita completa del controllo. Nessuno – forse nemmeno i proprietari stessi – è in grado di ripercorrere con sicurezza la genesi del lockout e del braccio di ferro dei proprietari, avvenuto nel 1998; ma si potrebbe scommettere sul fatto che, il giorno della firma del contratto di Garnett, avvenuto nei primi giorni dell’autunno 1997, un missile economico le cui onde d’urto arrivarono direttamente ai portafogli dei signori del gioco si abbattè sulla lega.”