domenica 23 agosto 2009

Best Friends Capitolo 4

CAPITOLO IV

America ed Europa sono fisicamente appartenenti allo stesso grembo della madre Terra, ma concettualmente e ideologicamente di due universi divorziati da anni, se non da sempre. Il Basket non fa eccezione, anzi demarca i contorni e risalta i contenuti di questa separazione che si esprime particolarmente su tre piani: il sistema sportivo, l’organizzazione e la mentalità. Categorie generali che non presuppongono una guerra fa queste due attitudini di pensiero, ma rendono i diversi orizzonti ancora alquanto inavvicinabili. Se è innegabile dunque che le capacità (oltreché le possibilità) di Stern e co. si trovano su di un altro livello distante anni luce, è altrettanto insindacabile che l’ambiente e le persone all’interno del Vecchio Continente creano un qual certo romanticismo, sconosciuto tra Hollywood e la Statua della Libertà, attorno al battito del pallone sul parquet tanto da fare, di un paio di colori, una “stagione di fede assoluta” [volendo citare “Finding Forrester”, film concernente in parte la pallacanestro con Sean Connery (aka William Forrester) nelle vesti di un ex scrittore prodigio, che si riscopre guida spirituale del giovane talento letterario, nonché cestistico, Rob Brown (aka Jamal Wallace) dopo anni di solitudine forzata e voluta, riassaporando anche l’amore per la vita grazie allo stesso rapporto di amicizia col ragazzo].

A Cantù, ricco centro industriale e della produzione artistitica del mobile situato in Brianza, quelle maglie bianco blu di “Chicco Ravaglia” e del “Pierlo” Marzorati, che sembrano pendere dal cielo più che dal soffitto dell’immortale Pianella, al fianco di stendardi autoritari simboleggianti le grandi vittorie di un settantennio di attività, significano tutto e di più. Sono l’orgoglio, innanzitutto, per tutta quella serie di emozioni capaci di rendere la Pallacanestro Cantù uno dei punti di riferimento del panorama cestistico italiano ed europeo. Sono la gioia ed il rimpianto, perché queste due parole non potranno mai essere dissociate. Sono il passato su cui costruire il futuro. Sono l’amore spassionato per questo Gioco. Un amore senza confini che non controlla i passaporti o le facce della gente, ma che può far godere per una coppa vinta tanto quanto per un playoff acciuffato all’ultima giornata grazie ad un quartetto americano variegatamente mixato sia come background che come caratteristiche (Dashaun Wood, Gerald Fitch, Torin Francis e Denham Brown), un atletone francese scartato dai “cugini” milanesi (Hervè Tourè), un lituano “color Fucka” dal nome improbabile (Povilas Cukinas), un trittico di gregari (oltre a mio fratello Niccolò, Juan Marcos Casini e Federico Lestini) ed un capitano uruguagio, ormai completamente italianizzato, che in quanto a coraggio ha di che rispiegare la lezione a tutti (Nicolas Mazzarino). Il mondo d’altronde è bello perché vario. La squadra in questione, allenata dall’imolese Luca Dalmonte e targata Tisettanta, ha concluso la stagione 2007/2008 in maniera esaltante (7° piazzamento nella griglia playoff), sorprendendo tutti gli addetti ai lavori che, prospettando un viaggio “all’inferno” nelle più rosee previsioni estive, probabilmente avevano sbagliato la mira di qualche chilometro, visto l’incubo attraversato dagli eterni rivali di Varese. Retrocessione senza attenuanti, con la beffa aggiuntiva del pugno del k.o. giunto proprio sul parquet del PalaMasnago ad opera di Mazzarino e soci, con il pre-partita “animato” dal volo di un aereo, affittato per l’occasione, recante appesa la scritta “EAGLES CANTU’ … SERIE B SERIE B”. Touchè. E dire che poco tempo è passato dallo scudetto della stella vinto con Gianmarco Pozzecco in campo a dispensare meraviglie e, per restare in tema, “aeroplanini”; lo stesso Poz catapultato nella passata stagione dall’altra parte dello “Stivale” in zona Capo d’Orlando e attorniato costantemente dall’eco di sei lettere che, legate insieme, si rendono prima o poi inevitabili nella vita di uno sportivo, ma che mai avremmo voluto sentire pronunciate così presto dal goriziano: r-i-t-i-r-o. Varese è stato l’inizio del vero spettacolo e anche qualcosa in più, mentre il mare di Sicilia ha mandato in onda la sigla finale. E in mezzo?

Tra l’1 e il 3 agosto del 2004 è in programma un triangolare a Colonia, città tedesca della Land (o più impropriamente regione) Nordrhein-Westfalen, i cui partecipanti sono le nazionali di Italia e Stati Uniti, oltre ai padroni di casa della Germania. Per le prime due, il torneo ha la funzione di test preparativo in vista dell’imminente ritorno alle origini dei Giochi Olimpici, sotto l’ombra del Partenone; per Nowitzki & friends, mancato il pass d’accesso alla più importante manifestazione sportiva mondiale, proprio per mano del team di Carlo Recalcati negli Europei di Stoccolma dell’anno precedente, la circostanza è buona sia per mettere in mostra le (elevate) qualità organizzative della Federazione teutonica, sia per confrontarsi con e contro il “modello” americano, oltremodo apprezzato da quelle parti. Il tricolore nostrano sembra avere insomma l’utilità del contorno a fianco della portata principale. Fascino e richiamo dell’evento, per quanto amichevole possa essere, tuttavia sono molto forti e le 9/10 ore di viaggio in macchina dalle “porte” di Torino, scorrono piacevoli e leggere. All’arrivo nel centro città di Colonia, le cose che si notano immediatamente sono tre: il Duomo in stile gotico (il terzo più alto al mondo), imponente e maestoso, la “Kölnarena”, stessi aggettivi da riciclare in ottica più moderna e tecnologica, e un edificio in fase di abbattimento sotto i colpi della palla demolitrice di una gru, sinistra e metaforica visione dello sgretolamento del muro posto tra “U.S.A. Basketball” e “Resto del Mondo”. Con una sola gara al giorno, di tempo per le visite turistiche ce n’è più che a sufficienza, ma il punto focale della “tre giorni” resta ovviamente il Basketball: la prima sfida vede confrontarsi “die deutsche Nationalmannschaft gegen Italien”, in pratica Nowitzki vs Italia. Il risultato finale dice “WunderDirk” (che chiude a quota 26 una prestazione di totale bellezza e pulizia cestistica), ma la compagine italiana è promossa in toto grazie anche al fantasioso rinnovamento portato da Pozzecco. La mattina dopo, l’allenamento di Galanda e compagnia scorre sereno con gli Stati Uniti in mente, ma senza tensione né timore: si sa, le grandi vittorie partono prima dalla testa e dalla convinzione. Ciò che il “Poz” crea dal palleggio, indifferentemente ambidestro, per guardie, ali, centri, panchinari, massaggiatori e allenatori, è un qualcosa di assolutamente unico e artistico, che in seguito all’ennesimo “no look” per due facili di Chiacig ti fa ringraziare quel giorno da piccolino in cui vedesti per la prima volta la palla a spicchi e ne rimanesti folgorato come col più classico dei colpi di fulmine. Archiviata la sessione di esercizi e preparazione dell’Italia, è ora la volta della Germania. Nowitzki (che sulla carta d’identità fa sempre 2 metri e 13) inizia una serie di tiri giusto per riscaldarsi: la meccanica è da far mancare il respiro e i primi sette, più che baciare la retina, sostanzialmente non la sfiorano nemmeno. Momento di totale estasi. L’allenamento deve però poi proseguire a porte chiuse, secondo il volere di coach (Dirk Bauermann) e staff nero-rosso-gialli: ciononostante il risveglio dall’incantesimo dura poco o nulla, poiché alle ore 20 in punto è in agenda la prima palla a due tra Team U.S.A. e Italia. Neanche un amaro Lucano si può chiedere di più dalla vita.

L’arena, oltre ad essere già piena circa mezz’ora prima della palla a due iniziale, è nettamente schierata dalla parte degli americani con lo storico coach Larry “play in the right way” Brown a gestire dalla panca. Carattere particolare e intelligenza unica, l’allenatore del “Dream Team 2k4” fu spesso autore di autentiche magie alla guida delle sue squadre (vedi Kansas in Ncaa, Clippers, Nets e Phila ai piani alti), portando a casa però l’unico jackpot finale della sua carriera Nba giusto un paio di mesi prima con i Detroit Pistons. Sostanzialmente era, agli occhi di tutti, in cima al mondo. Soltanto che se dalle sue bande nulla gli era sconosciuto, nemmeno i segreti più reconditi, le regole e l’universo FIBA in generale avevano (ed hanno tutt’ora) qualche “lieve” differenza con quel contesto e presentarsi anche solo ad un torneo pre-olimpico con la benché minima idea di chi possano essere Pozzecco e Basile, tanto d’aiuto non può essere. Nel settembre 2002 andavano in onda i Mondiali di Indianapolis, la bandiera a stelle e strisce sventolò solo dopo quelle di altre cinque Nazioni e se qualcuno si ricorda le stupende prestazioni di Ginobili e Bodiroga, forse non tanti rammentano le parole dell’allenatore statunitense George Karl: “Il mondo sta trovando degli accorgimenti e delle risposte al nostro Basket”. Parole sante. Brown tuttavia doveva aver marinato la lezione quel giorno.

Al mio fianco siedono due afro-americani con abbigliamento hip-hop e treccine d’ordinanza, probabilmente compari di Carmelo Anthony (viste le canotte col numero 15 di Denver da loro indossate e il fatto che lo stesso ex Syracuse abbia rivolto loro qualche cenno in un paio di circostanze), anch’essi sicuri anziché no di una facile vittoria. Come dargli torto: il riscaldamento di Iverson è abbacinante per la creatività di movimenti da playground che sprigiona, LeBron James non è ancora il “carro armato” di oggi ma fa spavento comunque, Stoudamire e Marion quando saltano sembrano non tornare mai giù, Duncan, Marbury e Wade hanno troppa classe per essere veri. Addirittura appaiono in “vantaggio” perfino a livello di commentatori, perché vuoi mettere il grande Bill Walton con Claudio Coldebella? Va beh, non resta che goderci lo spettacolo. “U.S.A – U.S.A. – U.S.A.” è il coro che si innalza più volte dagli spalti, sostituito talora da “ooooh” di meraviglia per alcune giocate. Attenzione, colpo di scena: c’è anche l’Italia! Galanda è subito in palla in entrambe le metà campo e quando sul parquet mette piede Righetti, gli Azzurri volano letteralmente a +9. Coach Brown ha già ruotato quasi tutti gli uomini a disposizione non riuscendo mai a trovare la carta giusta e così, nonostante la debordante fisicità dei suoi, alla seconda mano l’asso lo cala il collega avversario. Pozzecco inventa come Da Vinci per Galanda, che bombarda a più non posso, e in breve si arriva sul 35-20. Fino a poco fa scattavo foto a ripetizione, ora mi gusto questa fuga molto probabilmente effimera. Lo dimostra d’altronde l’amico ‘Melo, il quale, con il supporto di Shawn Marion (le due gambe umane più rapide ed esplosive nel salire al ferro che io abbia mai visto), consente il rientro in gara del “Dream Team in tour” fino al -6 precedente la pausa del tè. “Mannaggia che occasione sprecata!”. Lo pensano tutti tranne uno. Questo folle è un ragazzo di Ruvo di Puglia, noto per i cosiddetti “tiri ignoranti”, che l’anno seguente sarà capace di condurre la Fortitudo allo Scudetto con la fascia di capitano nel cuore più che sul braccio: lo chiamano “Baso” ma è più conosciuto come Gianluca Basile. I famosi tiri di cui sopra arrivano come grandine, sono 5 nel solo terzo periodo, con James e Wade persi tra i blocchi a non capirci assolutamente più nulla. La differenza la fa poi soprattutto la difesa che manda in tilt il gioco statunitense, privo di tiratori, “playmaking” e saggezza cestistica (con Duncan, unica voce a predicare nel deserto).

Il tempo scorre e la forbice, che si sta allargando sempre più, ad un certo istante si rompe come se si scontrasse contro il sasso della morra cinese, tutto ciò esattamente quando le redini dello show si incarica di assumerle il “Mago di Poz”. L’odore del sangue stuzzica la ricettività olfattiva di Gianmarco, il quale, colpito da un attacco di creatività delirante, azzanna la giugulare avversaria annichilendo a turno due contratti da 20 milioni di dollari corrispondenti al nome di Iverson, Allen e Marbury, Stephon, gente orgogliosa ai limiti della superbia, cui madre natura avrebbe anche donato discrete doti atletico-motorie. Il “Poz” vede cose proibite al bambino de “Il sesto senso” sfornando assist a ripetizione per mandare a referto a turno Chiacig, Galanda e Basile, salvo poi mettersi in proprio quando il momento lo richiede: il pubblico, intuendo che qui la storia è in fase di riscrittura, cambia improvvisamente fazione fino ad esplodere, come la più fedele delle curve italiane, dinanzi all’ “Inchino”. Sul +18, Pozzecco, che negli ultimi due attacchi aveva creato per cinque punti di Galanda, riceve il pallone a metà campo e vedendo una strada di luce si infila nel cuore della difesa statunitense affiancato da “The Answer”: penetrazione, finta di scarico in angolo per Chiacig, “and one” in allungo col fallo di Emeka Okafor e mano dietro la schiena per il suddetto “Inchino” di fronte al presidente della FIP Maifredi e all’intero parterre della “Kölnarena”. Tutti in piedi. L’azione seguente altro bignè per il 28° punto del capitano e totale disfatta americana. I due amici al mio fianco a suon di -“Oh man, great game!”- si complimentano e appaiono addirittura imbarazzati. Fila 4, Posto 18: chi se lo scorda più.

Pensare che tutto questo sarebbe stata solo un’anticipazione de “ il più bello” antecedente a “deve ancora venire”, però, era da veggenti nati. La memoria delle persone, a proposito dei grandi avvenimenti che la toccano, ricorda sempre due cose principali: l’evento in sé e il luogo in cui ti trovavi quando tutto ciò è successo. Alcuni esempi: erano circa le 9 e 40 di mattina dell’11 settembre 2001 quando rientrai a casa e vidi uno dei miei due fratelli sdraiato sul divano con un’espressione decisamente esterefatta intento a fissare il televisore. Mi sedetti a terra sul tappeto senza aver messo pienamente a fuoco l’accaduto, salvo poi essere catapultato nella dura realtà nel giro di venti minuti, nello stesso attimo in cui la seconda delle Torri Gemelle sarebbe crollata dinanzi ai miei occhi distanti migliaia di chilometri. Difficilmente l’inferno può dirsi peggio. Ma: “tempus aedax”. Meno di due anni dopo, sullo stesso tappeto e in rigorosa posizione scaramantica, gioisco come non mai per la vittoria in finale di Champions League, all’ “Old Trafford” di Manchester, del mio Milan contro i non amatissimi avversari juventini. Goduria totale che si amplia di proporzioni l’anno successivo, vista l’archiviazione del 17° scudetto della squadra rossonera, sorta tra l’altro lo stesso mio giorno e mese di nascita (e per fortuna anno diverso). Il buon tappeto anche qui ha fatto il suo lavoro, ma l’ultimo esempio, che riconduce al discorso precedente, ha sede d’altra parte: a casa di mia nonna a Sanico, frazione (minima, considerato l’esiguo numero di abitanti) di Alfiano Natta in provincia di Alessandria. E’ il 27 agosto 2004 ed in programma, oltre al solito giro in bici tra i campi e i paesi circostanti, c’è esclusivamente l’incontro tra Italia e Lituania. Si parla di semifinale olimpica, of course. Li avevamo lasciati in Germania speranzosi, ce li ritroviamo ad Atene con l’opportunità di tagliare uno dei traguardi più sensazionali di sempre per la nostra Nazionale. Dubito che qualcuno non sappia come sia andata a finire e in tal caso possano bastare alcuni riferimenti come il 100 – 91 corrispondente all’incredibile punteggio finale del match ed i numeri 31 e 17 sulla ruota d’Italia, relativi alle pennellate rispettivamente sparate ai baltici da Basile e Pozzecco.

Il rapporto del “Poz” con i propri allenatori è sempre stato problematico, tanto da fargli rischiare e talvolta addirittura perdere la maglia Azzurra (per informazioni rivolgersi al grande Boscia Tanjevic), che tuttavia un secondo padre come Carlo Recalcati gli ha coraggiosamente restituito in un’estate di passioni, venendo ripagato con una serie di emozioni ineguagliabili, non solo per il coach, ma per chiunque, tali da valere una “follia” come la seguente. Terminati il 7/11 da 3 del “Baso” e la geniale ispirazione pozzecchiana dei secondi 20’, conclusasi la sfilza di liberi capace di rendere vani i 26 punti di un favoloso Macijauskas, vero punto di riferimento della Lituania campione d’Europa uscente, alzate le braccia al cielo dopo l’ultima sirena, parte una telefonata: dolce cosciente follia quella che plasma l’idea di una toccata e fuga per assistere alla Finale contro l’Argentina di Scola e Ginobili, autori del soverchiamento totale del potere americano, rivolto ora a salvare la faccia solo più con un “miserevole” bronzo. A piano ultimato, mi sorge in mente la mia ideale lista di desideri: questa casella barrata è quasi in cima, poco ma sicuro. Non è la prima volta e non sarà nemmeno l’ultima che metto piede in terra greca e specialmente ateniese, ma mai un viaggio è stato così intenso e appassionante, forse grazie anche alla breve durata che tra andata e ritorno ha conteggiato non molto più di 16 ore. L’elettrizzante atmosfera olimpica la si può inalare già all’interno dell’ “Elefthérios Venizélos”, aeroporto rasente la perfezione a sud della capitale ellenica, in cui l’infinito “melting-pot” di gente proveniente da ogni dove ti fa comprendere che il valore dell’evento a cinque a stelle va ben oltre l’essere puramente ed unicamente sportivo. Quando poi, la visione del tripode arso dalla fiaccola si concretizza, due pensieri o tre in più alla storia ti sovvengono inevitabilmente: sai che la fiamma ha illuminato Barcellona e “the real Dream Team” nel lontano 1992 anche se forse sono stati Magic, Larry e Michael a rischiarare il contorno; così come ha assistito, nell’ancor più distante 1968, il pugno alzato con il guanto nero di Tommie Smith, signore incontrastato dei 200 metri all’epoca, e John Carlos sul podio di Città del Messico, facendo intendere che il meraviglioso sogno del dottor Martin Luther King Junior, partorito esattamente un lustro prima, aveva sì bisogno di sempre maggiore supporto ma al contempo era il brevetto ufficiale di un mondo diverso, migliore, più giusto e più… realista; sei conscio inoltre che il braciere ha fatto da testimone al massacro degli sportivi israeliani da parte dell’organizzazione palestinese Settembre Nero a Monaco ’72, così come invece è stato simbolo di commozione per l’impresa dell’aborigena Cathy Freeman a Sidney 2000; senza contare infine attimi indelebili come l’accensione del fuoco di Atlanta ‘96 da parte di Muhammad Alì, il quale, nella debolezza causatagli dal morbo di Parkinson, mostrò tutto il suo vigore facendo idealmente pace col mondo e chiudendo di fatto un cerchio, partito proprio da quella città della Coca Cola che diede i natali al pastore King di cui sopra. La lacrimuccia scende a prescindere.

Bisogna però scuotersi poiché prima della portata principale c’è un antipasto assai gustoso come U.S.A. vs Lituania, che avrebbe potuto valere tranquillamente la sfida per la medaglia aurea: ma questa è l’estate degli italiani (con e senza virgolette), visto che se chiedete a Manu Ginobili e Carlos Delfino il nodo cruciale della loro carriera, difficile che non vi rispondano con un nome tra Italia, Bologna e Reggio Calabria. Nota a margine su quest’ultima: indimenticabile l’estate di passioni, tramutatasi però poi in disastro societario e in qualche anno fallimento, in cui sulla lista della spesa del GM della Viola erano comparsi gli acquisti di giocatori allora quasi sconosciuti come Anderson Varejao e Ben Wallace (entrambi ora più o meno furoreggianti sotto l’ala protettiva di LBJ 23) o anche Nenè Hilario (power forward dei Denver Nuggets capace di sconfiggere un tumore), i quali avrebbero dovuto affiancare la stella splendente di Carlton Myers e assecondare la guida tecnica dal pino di Carlo Recalcati. Grande scenografia comprendente pure un geniale interesse verso Arvydas Sabonis che, come in uno dei migliori copioni hollywoodiani, ha finito per essere un bluff di dimensioni stratosferiche. Ah già: regia a cura dell’ingegner Domenico Barbaro, scomparso in situazioni rocambolesche e senza più lasciare traccia. Strano… Le strade periferiche che si aprono da ogni argomento sono innumerevoli e quindi meglio tornare su quella maestra. Spostando l’occhio dalla Fiaccola in direzione est, si incrocia la vista con l’ Oaka Arena, la casa del Panathinaikos in grado di contenere circa 18000 anime. All’ingresso nel palasport si sentono solo i variopinti e colorati supporters lituani per i quali Lietuva = fede incondizionata, senza mezzi termini. Le nostre seggiole si trovano in una metà della tribuna opposta alle panchine delle squadre, nel “settore italiano” affiancato dall’altra metà latina che ospita le bandiere bianco-azzurre provenienti da Buenos Aires & friends. All’appello non mancano nemmeno gli statunitensi, sparsi un po’ ovunque ma dall’entusiasmo contenuto, per usare un eufemismo, perché la Finale Olimpica non è più affare loro e questo, oltre ad essere un evento più unico che raro, è un contraccolpo notevole sull’ego sconfinato del Paese che è oggi nelle mani profumate di cambiamento di Barack Obama. A tal proposito mi è utile interpretare la faccia del commissioner Nba David Stern: lo intravedo a breve distanza e avvicinandomi per chiedere un autografo (la mia più cattiva ed al contempo amata fissazione) noto un sorriso costante ma forzato, sintomatico che gli dei sono piombati giù dall’Olimpo (metafora perfetta per luogo e momento) e questo non è andato per nulla giù a chi comanda, esponendosi anche in prima persona. Quello che canta Nelly Furtado:“Why do all good things come to an end?” se lo stava chiedendo anche Stern. L’incontro in sé appare quasi un match da All Star Game con difese ballerine, attacchi esplosivi e giocate a sensazione: a portarla a casa, salvando in parte capre e cavoli, sono Marion (22 veleggianti a grandi altezze), Iverson (15) e Odom (14), anche se l’ormai usuale “loosing effort” da 24 pepite (con 7 bombe) di Macijauskas ben più di qualche grattacapo l’ha creato. U.S.A. vincitori ma “perdenti”, osservati a bordocampo dalle colleghe della WNBA: loro sì Nazionale imbattibile, composta da giocatrici del calibro di Diana Taurasi, Lisa Leslie, Sheryl Swoopes, Dawn Staley, Tina Thompson e Yolanda Griffith, le quali in Finale hanno spazzato via la splendida aussie Lauren Jackson e relative compagne. Time is come. Sembra di stare in apnea, attendendo solo che quaranta lunghi, rapidi minuti scadano. Non troppo lontani da me ci sono i genitori di Pozzecco: il figliolo non è al 100%, tutt’altro, scavato in volto dalla fatica accumulata durante il torneo, ma da qui al dare forfait proprio nella partita della vita… suvvia, questo è sempre quello dei capelli fucsia con la stella gialla di Varese. No way: lo sanno mamma Lalla e papà Franco, lo sa Charlie, lo sa Meneghin, lo sanno tutti. Vada come vada, ma disertare in trincea non è roba da Poz.

Il racconto si interrompe.

Ore 1:00 circa. Con lo stomaco in allarme ci rechiamo io, mio padre e mio fratello Lorenzo, in un risto-pub-bar (boh!) per mettere qualcosa sotto i denti e trovato posto in un tavolino esterno al locale, nel mezzo di una minuscola viuzza del centro ateniese, ordiniamo da mangiare. Appena serviti, neanche il tempo di dare il secondo morso che dal viale parallelo si sente provenire un forte botto, seguito poi da urla e un fuggi-fuggi generale. Nel giro di due minuti capiamo il perché del trambusto e in gran velocità, portandoci via pane e salsicce, ce la diamo a gambe levate attraverso una cappa fumogena che dal luogo del misfatto si era presto dilatata in tutto il quartiere. Passo dopo passo giungiamo nella piazza principale della capitale greca, “Omonia Square”, e visto che di mangiabile precedentemente ne era rimasto ben poco, una sosta tappabuchi in un noto fast food americano male non fa. Il Big Mac non delude mai e stavolta porta con sé anche la sorpresa: le 2 a.m. si avvicinano e dalla porta d’ingresso del Mc Donald’s sbucano… Pepe Sanchez e Manu Ginobili, i due bahiensi con ancora addosso la divisa recante il “Sol de Mayo” e con tanto di sgargiante medaglia d’oro al collo! Lo champagne deve aver fatto effetto perché un colpo così scommetto che pochi ce l’hanno. Mi avvicino per complimentarmi e far vergare il canonico foglio, e noto una cosa: ma quanto è magro “Gino”?! Non sembra vero che questo ogni sera si scontri con bestie sullo stile O’Neal o Yao Ming uscendone pure vincitore, eppure il suo amico Duncan poco fa era sul terzo gradino del podio mentre lui, con l’orgoglio di un “conquistador”, mostrava al mondo la bandiera “celeste-blanco-celeste” dall’alto della montagna degli dei, anche a scapito della sua amata Italia. Eh si, perché l’incantesimo azzurro è stato spezzato dalle penetrazioni dell’ex idolo indiscusso di Casalecchio e dal solito, fantastico, implacabile Luis Scola, i cui 25 punti non ne avranno fatto l’MVP, ma ragazzi che partita… La stanchezza di Basile e soci era troppa ed è andata anche al di là del cuore, comunque sempre arealmente incalcolabile, altrimenti non pareggeresti a quota 45 nel terzo quarto, tirando male e giocando quasi in slow motion, grazie ai canestri di Rombaldoni e Garri uniti a quelli di Soragna. Le triple ignoranti non sono entrate, quelle più costruite nemmeno, secondo alcuni poi Pozzecco è stato dimenticato troppo in panca e così nel 4° periodo la legge del più forte è stata applicata anche da Alejandro Montecchia, altro italo-argentino dal cuore di pietra. Grande vittoria, di tutte e due. Le lacrime del “Poz” sono inevitabili: per toccare questa vetta ha messo tutto sul banco e ciò che batte nel petto non ne è che una minima parte. Come tutti è partito dal basso ma a differenza di molti è rimasto nel cuore facendo sobbalzare, commuovendo, riscrivendo l’aspetto artistico del basket e del non-basket, immaginando ciò che nessuno ha neppure una volta intravisto, ridendo anche quando non avrebbe dovuto, vincendo l’argento più dorato della storia della Nazionale, ispirando lo striscione “Poz: un saluto al nostro miglior peggior nemico!” persino nell’eterna rivale Cantù, camminando sempre a testa alta a costo di dire “niet” (vista la parentesi russa) anche alla Virtus con giusto due soldoni sul piatto, salutando “Chicco” Ravaglia e giocando anche per lui, divertendo, divertendo e ancora divertendo. Soprattutto, poi, è genuino e li non ti sbagli. Ad Avellino, con la maglia targata Upea di Capo(z) d’Orlando, ha mandato il suo ultimo saluto al basket giocato. Anche lì si è inchinato ringraziando tutti con i lacrimoni agli occhi, proprio come aveva fatto a Colonia e proprio come aveva fatto al Pianella in mezzo al campo. Le braccia si allargano, l’aeroplanino si manifesta: “Poz numero 1”.

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