domenica 23 agosto 2009

Best Friends Capitolo 2

CAPITOLO II

A voce di tutti, o quasi, il meno terrestre è solo e sempre stato Jordan ed è forse per questo motivo che dal suo (primo) ritiro si è costantemente cercato qualcuno in grado di raccoglierne il testimone: esplorate e quindi abbandonate le piste che conducevano a Grant Hill, Vince Carter, Tracy McGrady (e tanti altri…) il Graal, la corona, lo scettro o chiamatelo come volete, è finito nelle mani di Kobe Byrant. Co-protagonista nei Lakers accennati sopra, ma sempre un gradino sotto Shaq come importanza, il figlio dell’ex Reggio Emilia Joe “Jelly Bean” Bryant, ha già ampiamente dimostrato che come singola individualità il paragone col “numero 23” ci sta alla grande. “Capocannoniere” Nba a piacimento, premio di MVP ritagliato per lui, 62 (!) e 81 (!!!) punti proferiti nel giro di un paio di settimane, dieci gare in fila oltre il quarantello (MJ superato), un campionario tecnico infinito ed un tasso di spettacolarità (che non guasta mai) da brividi. One Man Show: nel bene e nel male perché Kobe, a differenza di Jordan, deve ancora dimostrare di saper vincere da leader della squadra, sapere cioè guidare i suoi al Larry O’Brien Trophy caricandoseli sulle spalle e gestendo il controllo del proscenio. Qui Bryant non è (ancora) al livello del Maestro , ma qualcuno ha il sinistro presentimento che proprio dall’annata in corso le cose possano presentare un nuovo risvolto [n.d.r. Ad una anno di distanza il destino ha compiuto il suo corso. Black Mamba MVP della Finale e tanti cari saluti ai critici].

Miti e leggende sono però sovente anche figure o addirittura squadre che alla resa dei conti hanno concretizzato ben poco, ma che per qualcuno e per qualche ragione sono assorti al ruolo di “immortali”. Il mio pensiero, ad esempio, sentendo parlare (e guardando giocare) gente apparentemente predestinata come Sebastian Telfair, OJ Mayo o il Greg Oden di turno (LeBron James merita un discorso a parte, anche due…) va sempre irrimediabilmente a ripescare il nome di colui che avrebbe dovuto prendere in mano le redini di successore naturale di “The Answer”: da Camden, New Jersey, DaJuan Marquett Wagner. “The Messiah”. 1 metro e 85 centimetri di talento puramente distillato, sparso inizialmente alla locale Camden High School, in cui un giorno (non) come gli altri decise di scriverne a referto tanti quanti ne limò Chamberlain ai Knicks nella storica gara del 2 marzo 1962. Senior’s season chiusa con 42 pts ad allacciata di scarpe, ovviamente record. Il giovane DJW cresceva così come la sua popolarità e, prima di asciugare la bava ai vari scout Nba, decise di prestare i propri servigi a coach Calipari, fermata Memphis University del treno che porta al piano di sopra. Vederlo attacare il ferro in maniera sì variegata è un piacere assoluto per ogni pupilla tanto quanto è un viaggio all’inferno e ritorno per i suoi difensori. Al termine della prima ed ultima stagione al college chiude oltre le 20 pepite a sera cui si aggiungono il titolo di Freshman of The Year e quello di Mvp (con messa in bacheca) del NIT. Come detto, Next Stop: Nba. Alla numero 6 lo pesca Cleveland, convinta di aver compiuto un autentico furto. Il destino si rivelerà beffardo: Wagner viaggia a 13 di media nell’anno da rookie ma con all’attivo circa metà delle 82 partite giocabili, visti i gravi problemi intestinali (colite) che cominciano sinistramente ad affliggerlo. Con il tempo le cose vanno addirittura peggiorando, così come le cifre, e le partite disputate saranno 55 nel giro di due anni. Terminato il “canonico” contratto triennale per i giocatori provenienti dal draft, i Cavs scelgono l’opzione del non-rinnovo e per la serie “se può andar peggio, stai sicuro che ci va”, DaJuan è costretto anche all’asportazione del colon con conseguente abbandono del basket giocato per l’annata in divenire. Ripartire non è la cosa più semplice da fare ed infatti “The Messiah” con la faccia da bambino non rivedrà più il vero sé stesso. La comparsata dello scorso anno in Polonia, al Prokom Sopot, ha di che definirsi malinconica ed il presente è ora affidato alle mani e ai metodi del rinomato preparatore atletico Tim Grover. La speranza non morirà mai, ma probabilmente il sogno era finito prima ancora di aver dato libero sfogo alla fantasia.

L’aria di Cleveland, o “The Mistake on the Lake” come veniva da molti soprannominata, doveva però avere qualcosa di sbagliato, di maligno all’epoca dell’ingresso di Wagner nella Nba: la squadra fu infatti costruita attorno, oltre che al rookie da Memphis, a gente come Ricky Davis, Zydrunas Ilgauskas e ad un astro nascente proveniente dai Los Angeles Clippers che risponde al nome di Darius Miles. Il primo è un “cavallo pazzo” natìo, non a caso, di Las Vegas, saltatore irreale, che durante l’anno in questione diverrà autentico idolo per le generazioni future quando sul finire di una gara abbondantemente in ghiaccio, ad un rimbalzo dalla prima tripla doppia in carriera, con una magata assoluta sbaglierà volontariamente un lay-up nel… proprio canestro per cercare di catturare la fatidica carambola, venendo però prontamente “linciato” da un accorrente DeShawn Stevenson. La disperazione di coach Paul Silas nei confronti di un giocatore mai amato, raggiungerà i massimi storici. Il lituano fu invece incredibilmente martoriato dagli infortuni che lo costrinsero a saltare quasi 300 partite nei primi sei anni di Nba, ponendo così ovviamente un forte limite alle capacità atletiche del centro da Kaunas (non a quelle tecniche però che, grazie ad una fortunatamente ritrovata stabilità, negli ultimi anni gli hanno permesso di ergersi tra i top nel suo ruolo, merito anche con buona probabilità della presenza in squadra di LBJ 23, verso il quale le difese stanno più attente di un radar militare). D-Miles infine era uno che al proprio arrivo nella Lega indusse molti dottori e scienziati a riscrivere i manuali di anatomica ed al contempo rivedere qualsiasi formula gravitazionale. Membro ufficiale della “banda delle fascette”, completata da Lamar Odom, Quentin Richardson, Corey Maggette, Elton Brand e Keyon Dooling, che riuscì a rendere i Clippers la squadra più divertente d’ America, Darius abbagliò il mondo nel giorno dell’All Star Saturday allorchè, nonostante la sconfitta del team dei primo anno, si abbattè con sei vorticose schiacciate di indescrivibile spettacolarità e bellezza sui malcapitati avversari, puntualmente posterizzati senza scrupoli. I miglioramenti dei Clips però tardarono ad arrivare nei due anni con Miles ed il tassello mancante, secondo il coach Alvin Gentry, doveva essere un playmaker: senza esitazione fu quindi scambiato, insieme ad Harold Jamison (si, quello di Ferrara), per Andre Miller, alquanto sconcertato in Ohio. La fiducia riposta dallo staff dei Cavs nell’ex talento di East Saint Louis HS però non ha mai pagato i dividendi sperati (la media punti calante ne è un esempio evidente) ed è così che con l’avvento (vero e proprio) di “The King”, LeBron James, Miles ha cambiato quasi immediatamente aria con il trasferimento a Portland. Nella “Rose City” il suo immenso potenziale sembrava finalmente in grado di essere sprigionato dopo due campionati in abbondante “double-digit”, finchè una maledetta “microfracture surgery” (vero incubo di qualunque cestista) non ha tarpato le ali ad un volo (apparentemente) sempre più continuo e strabiliante che aveva lasciato molti a bocca aperta fin dal principio. L’odore di ritiro a 24 anni è una gran brutta bestia.

Di quella fantastica compagine faceva anche parte un ragazzo dell’Alaska, transitato alla corte di Coach K a Duke, chiamato Carlos Boozer, il quale al termine dell’annata successiva compì “Il Tradimento”, venendo letteralmente considerato al pari di Giuda dai tifosi dei Cavs (che gli hanno pure dedicato il sito internet, “Carlos Loozer.com”): il misfatto sta nell’aver dato la propria parola per un rinnovo contrattuale sicuro con Cleveland, salvo poi accettare l’offerta decisamente più remunerativa (nell’ordine di milioni) e favorevole dal punto di vista tecnico (un ruolo da leader assicurato) di Utah pochi giorni dopo. Che il 99,9% dei viventi avrebbe fatto la medesima scelta, conta poco. Cavaliers e Clippers sono comunque due universi a parte all’interno di quella Nba che un modo per farti divertire lo trova e lo troverà sempre.

E qual'è il metodo più sicuro per entusiasmare tifosi ed osservatori di cinque continenti? "The Dunk", of course. I puristi avranno sicuramente ogni motivo e ragione per dissentire, ma obiettivamente l'adrenalina, dopo azioni ad alta quota, tende a salire a livelli inusitati. Le schiacciate, proprio per loro natura, sono sempre state accompagnate da istinti di supremazia, dominio, forza, voglia di ergersi al di sopra degli altri e colmare, anche se in piccolissima parte, quell'eterno desiderio (umano) di volare. Di "Icaro" nella storia di questo gioco ce ne sono stati tanti (lo stesso Darius Miles, non è che una controprova) e solo in pochi sono diventati indimenticabili. Fare paragoni è tanto impossibile quanto inutile, ma proprio nessuno ha mai conciliato nella medesima maniera le capacità acrobatiche, atletiche, tecniche e artistico-creative del Vince Carter ai tempi di Toronto e in parte New Jersey. Shaquille O’Neal lo ribattezzò, già al suo primo anno, “Half Man-Half Amazing” senza che nessuno osasse nemmeno vagamente propugnare un minimo di cautela. Incurante delle vertigini, "Vincecredible" è entrato con un braccio nel canestro, ha scalato vette sensazionali come i 220 centimetri di Frederic Weiss alle Olimpiadi di Sidney 2000 (“folle volo” avrebbe detto Dante), fatto colazione, pranzo e cena sulle teste di stoppatori del calibro di 'Zo Mourning, Dikembe Mutombo, Tim Duncan (saltato anche lui letteramente come il francesone) e Ben Wallace, roteato a 360° “mulinando”, ma soprattutto planato con uno stile mixato di eleganza e potenza senza precedenti: un autentico viaggio trascendente in prima classe extra-lusso. Molti non saranno magari d’accordo ed argomenti confutativi come possono essere Julius Erving (il candidato principale nella corsa ideale verso lo scettro), Michael Jordan, Dominique Wilkins o, in tempi moderni, LeBron James hanno anche il loro fascino, ma quel Vincent Lamar Carter da Daytona Beach, a mio modesto parere, il fiato te lo toglie come nessun altro. Se da una parte ci sono i grandi schiacciatori, esiste comunque anche l’altro lato della medaglia, cioè quegli sventurati difensori che arrivando in aiuto al proprio compagno battuto vengono puntualmente posterizzati (come dicono al di là dell’Oceano) dal saltatore di turno, il quale non raramente e con buoni diritti si concede anche uno sguardo tra il cattivo e l’irrisorio verso il malcapitato, per cui oltre al danno si aggiunge la beffa. Storicamente questi gesti di sfida sono stati rivolti in particolar modo dalle iper atletiche guardie/ali verso i centroni dai 7 piedi in su, capaci di stopparti anche senza saltare e dunque visti un po’ come quel poliziotto corrotto ed intoccabile (sovente materia televisiva), cui le stesse angherie proferite ad un certo punto si ritorcono contro con enorme soddisfazione non solo dell’ex “vittima” ma anche degli spettatori a casa. Uno di questi “sbirri” d’area è stato certamente Shawn Bradley: mai visto qualcuno così a lungo abbonato nel finire sui poster delle camere e dei muri di tutto il mondo. Nei nove anni (dal 1996 fino al suo ritiro avvenuto nel 2005) di militanza con la canotta dei Dallas Mavericks, questo mormone, soprannominato non a caso “Mormon Mantis” (la mantide mormona), con passaporto tedesco , fu assolutamente fatto oggetto di un concorso di schiacciate facciali da parte di tutti i migliori dunker della Lega, tanto da finire costantemente nella Top 10 di Nba Action, seppur dalla “parte sbagliata della luna”. Tra i più assidui partecipanti si annoverano il già citato Carter e suo cugino (di alto, alto… altissimo grado) Tracy McGrady, Kevin Garnett, Keon Clark (altra incredibile storia di pterodattilo atleticamente strabordante, che viene però ricordato per due cose: ovviamente la schiacciata in testa a Bradley con fallo a conclusione di una specie di terzo tempo in “fade away”, e la spropositata mole di problemi legali al di fuori del parquet, fra cui l’uso spregiudicato di marijuana e cocaina, motivo primario del suo allontanamento dalla Nba), Kenyon Martin negli anni mirabolanti di New Jersey al fianco di Jason Kidd, Donyell Marshall in quelli di Salt Lake City e Shaquille O’Neal, che alla sola vista dell’ex Brigham Young University tirava fuori istinti “godzilleschi” di distruzione del ferro e dintorni. Anni ruggenti.

Anni in cui “Tony Tiger”, o meglio noto come Tony Delk, sfoderò una prestazione da 53 perle in 50’ contro i suoi ex compagni di Sacramento.

Nato a Covington, Tennessee, fu campione NCAA 1996 con la Kentucky di Pitino, che sconfisse la Syracuse University di Jim Boheim e John Wallace al termine di un torneo eccezionale in cui i Wildcats vinsero ogni gara di almeno sette punti (le prime quattro dai venti in su) e Tony fu eletto Most Outstanding Player (MVP sostanzialmente) della Final Four dopo i 24 che mandarono in archivio la stagione. L’Nba si è però rivelata più dura del previsto, vista la sua tendenza ad essere una guardia nel corpo di un play, e così il passo da possibile stella a gregario è stato breve. Dopo tante difficoltà, è transitato poi dalle parti del Pireo, a domicilio del Panathinaikos con cui fece il grande Slam, anche se in maggio venne allontanato per problemi disciplinari e con la dirigenza. Il suo meglio (tra i Pro, of course) lo diede però proprio in quella fresca serata di gennaio del 2001 (in maglia Suns), chiusa a 20/27 dal campo, senza nessun tentativo da oltre l’arco e facendo scendere più di una lacrimuccia a molti puristi del Gioco: “Impossible is nothing”. E’ anche, o forse soprattutto, così che qualcuno può bussare alla porta del cuore e delle emozioni vere.

Anni della maledizione playoff per lo “Sceriffo”.

Parliamo cioè di Shareef Abdur-Rahim, Mr. Eleganza dai movimenti ghepardeschi, che in nove anni statisticamente rilevanti (20+9 assicurato) tra Vancouver Grizzlies, Atlanta Hawks e Portland Trail Blazers, non ha mai raggiunto quella benedetta post season e quel livello che per molti avrebbe dovuto competergli. Nel 2004 bruciò addirittura il record di match consecutivi disputati senza playoff per un giocatore. La stagione seguente doveva essere l’anno giusto, con il trasferimento ai Nets del trio Kidd-Carter-Jefferson: le visite mediche diedero però incredibilmente responso negativo e l’ex terza scelta del Draft ’96 si vide costretto a ripiegare sui Kings. Ma proprio con questi, nonostante problemi tecnici e gestionali (compresa l’esclusione dal quintetto), ottenne il pass per l’Elite Eight della Western Conference. I sogni, tuttavia, spesso non sono come te li eri immaginati ed incontrare gli Spurs, benché non nelle annate dispari, è stato sempre arduo per tutti. Poi arrivarono gli infortuni; infine il ritiro. Grazie lo stesso, Shareef.

Anni di dolore e lacrime.

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