CAPITOLO II
A voce di tutti, o quasi, il meno terrestre è solo e sempre stato Jordan ed è forse per questo motivo che dal suo (primo) ritiro si è costantemente cercato qualcuno in grado di raccoglierne il testimone: esplorate e quindi abbandonate le piste che conducevano a Grant Hill, Vince Carter, Tracy McGrady (e tanti altri…) il Graal, la corona, lo scettro o chiamatelo come volete, è finito nelle mani di Kobe Byrant. Co-protagonista nei Lakers accennati sopra, ma sempre un gradino sotto Shaq come importanza, il figlio dell’ex Reggio Emilia Joe “Jelly Bean” Bryant, ha già ampiamente dimostrato che come singola individualità il paragone col “numero
Miti e leggende sono però sovente anche figure o addirittura squadre che alla resa dei conti hanno concretizzato ben poco, ma che per qualcuno e per qualche ragione sono assorti al ruolo di “immortali”. Il mio pensiero, ad esempio, sentendo parlare (e guardando giocare) gente apparentemente predestinata come Sebastian Telfair, OJ Mayo o il Greg Oden di turno (LeBron James merita un discorso a parte, anche due…) va sempre irrimediabilmente a ripescare il nome di colui che avrebbe dovuto prendere in mano le redini di successore naturale di “The Answer”: da Camden, New Jersey, DaJuan Marquett Wagner. “The Messiah”.
L’aria di Cleveland, o “The Mistake on the Lake” come veniva da molti soprannominata, doveva però avere qualcosa di sbagliato, di maligno all’epoca dell’ingresso di Wagner nella Nba: la squadra fu infatti costruita attorno, oltre che al rookie da Memphis, a gente come Ricky Davis, Zydrunas Ilgauskas e ad un astro nascente proveniente dai Los Angeles Clippers che risponde al nome di Darius Miles. Il primo è un “cavallo pazzo” natìo, non a caso, di Las Vegas, saltatore irreale, che durante l’anno in questione diverrà autentico idolo per le generazioni future quando sul finire di una gara abbondantemente in ghiaccio, ad un rimbalzo dalla prima tripla doppia in carriera, con una magata assoluta sbaglierà volontariamente un lay-up nel… proprio canestro per cercare di catturare la fatidica carambola, venendo però prontamente “linciato” da un accorrente DeShawn Stevenson. La disperazione di coach Paul Silas nei confronti di un giocatore mai amato, raggiungerà i massimi storici. Il lituano fu invece incredibilmente martoriato dagli infortuni che lo costrinsero a saltare quasi 300 partite nei primi sei anni di Nba, ponendo così ovviamente un forte limite alle capacità atletiche del centro da Kaunas (non a quelle tecniche però che, grazie ad una fortunatamente ritrovata stabilità, negli ultimi anni gli hanno permesso di ergersi tra i top nel suo ruolo, merito anche con buona probabilità della presenza in squadra di LBJ 23, verso il quale le difese stanno più attente di un radar militare). D-Miles infine era uno che al proprio arrivo nella Lega indusse molti dottori e scienziati a riscrivere i manuali di anatomica ed al contempo rivedere qualsiasi formula gravitazionale. Membro ufficiale della “banda delle fascette”, completata da Lamar Odom, Quentin Richardson, Corey Maggette, Elton Brand e Keyon Dooling, che riuscì a rendere i Clippers la squadra più divertente d’ America, Darius abbagliò il mondo nel giorno dell’All Star Saturday allorchè, nonostante la sconfitta del team dei primo anno, si abbattè con sei vorticose schiacciate di indescrivibile spettacolarità e bellezza sui malcapitati avversari, puntualmente posterizzati senza scrupoli. I miglioramenti dei Clips però tardarono ad arrivare nei due anni con Miles ed il tassello mancante, secondo il coach Alvin Gentry, doveva essere un playmaker: senza esitazione fu quindi scambiato, insieme ad Harold Jamison (si, quello di Ferrara), per Andre Miller, alquanto sconcertato in Ohio. La fiducia riposta dallo staff dei Cavs nell’ex talento di East Saint Louis HS però non ha mai pagato i dividendi sperati (la media punti calante ne è un esempio evidente) ed è così che con l’avvento (vero e proprio) di “The King”, LeBron James, Miles ha cambiato quasi immediatamente aria con il trasferimento a Portland. Nella “Rose City” il suo immenso potenziale sembrava finalmente in grado di essere sprigionato dopo due campionati in abbondante “double-digit”, finchè una maledetta “microfracture surgery” (vero incubo di qualunque cestista) non ha tarpato le ali ad un volo (apparentemente) sempre più continuo e strabiliante che aveva lasciato molti a bocca aperta fin dal principio. L’odore di ritiro a 24 anni è una gran brutta bestia.
Di quella fantastica compagine faceva anche parte un ragazzo dell’Alaska, transitato alla corte di Coach K a Duke, chiamato Carlos Boozer, il quale al termine dell’annata successiva compì “Il Tradimento”, venendo letteralmente considerato al pari di Giuda dai tifosi dei Cavs (che gli hanno pure dedicato il sito internet, “Carlos Loozer.com”): il misfatto sta nell’aver dato la propria parola per un rinnovo contrattuale sicuro con Cleveland, salvo poi accettare l’offerta decisamente più remunerativa (nell’ordine di milioni) e favorevole dal punto di vista tecnico (un ruolo da leader assicurato) di Utah pochi giorni dopo. Che il 99,9% dei viventi avrebbe fatto la medesima scelta, conta poco. Cavaliers e Clippers sono comunque due universi a parte all’interno di quella Nba che un modo per farti divertire lo trova e lo troverà sempre.
E qual'è il metodo più sicuro per entusiasmare tifosi ed osservatori di cinque continenti? "The Dunk", of course. I puristi avranno sicuramente ogni motivo e ragione per dissentire, ma obiettivamente l'adrenalina, dopo azioni ad alta quota, tende a salire a livelli inusitati. Le schiacciate, proprio per loro natura, sono sempre state accompagnate da istinti di supremazia, dominio, forza, voglia di ergersi al di sopra degli altri e colmare, anche se in piccolissima parte, quell'eterno desiderio (umano) di volare. Di "Icaro" nella storia di questo gioco ce ne sono stati tanti (lo stesso Darius Miles, non è che una controprova) e solo in pochi sono diventati indimenticabili. Fare paragoni è tanto impossibile quanto inutile, ma proprio nessuno ha mai conciliato nella medesima maniera le capacità acrobatiche, atletiche, tecniche e artistico-creative del Vince Carter ai tempi di Toronto e in parte New Jersey. Shaquille O’Neal lo ribattezzò, già al suo primo anno, “Half Man-Half Amazing” senza che nessuno osasse nemmeno vagamente propugnare un minimo di cautela. Incurante delle vertigini, "Vincecredible" è entrato con un braccio nel canestro, ha scalato vette sensazionali come i
Anni in cui “Tony Tiger”, o meglio noto come Tony Delk, sfoderò una prestazione da 53 perle in
Nato a Covington, Tennessee, fu campione NCAA 1996 con
Anni della maledizione playoff per lo “Sceriffo”.
Parliamo cioè di Shareef Abdur-Rahim, Mr. Eleganza dai movimenti ghepardeschi, che in nove anni statisticamente rilevanti (20+9 assicurato) tra Vancouver Grizzlies, Atlanta Hawks e Portland Trail Blazers, non ha mai raggiunto quella benedetta post season e quel livello che per molti avrebbe dovuto competergli. Nel 2004 bruciò addirittura il record di match consecutivi disputati senza playoff per un giocatore. La stagione seguente doveva essere l’anno giusto, con il trasferimento ai Nets del trio Kidd-Carter-Jefferson: le visite mediche diedero però incredibilmente responso negativo e l’ex terza scelta del Draft ’96 si vide costretto a ripiegare sui Kings. Ma proprio con questi, nonostante problemi tecnici e gestionali (compresa l’esclusione dal quintetto), ottenne il pass per l’Elite Eight della Western Conference. I sogni, tuttavia, spesso non sono come te li eri immaginati ed incontrare gli Spurs, benché non nelle annate dispari, è stato sempre arduo per tutti. Poi arrivarono gli infortuni; infine il ritiro. Grazie lo stesso, Shareef.
Anni di dolore e lacrime.
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