
CAPITOLO I
Icone, idoli, miti, leggende. Ognuno ha avuto il proprio modello, la suprema fonte d’ispirazione e guida, magari anche solo inconsciamente, dei propri intenti. Ebbene, spasimando per quello sport legato al tiro di una palla in un cesto, cui un professore di educazione fisica canadese, poi naturalizzato americano, Dr. James Naismith, diede i primi natali sotto il nome di “BASKETBALL” , non si può non essere stati stregati anche solo una volta da quell’ottava meraviglia del mondo conosciuto che fu Michael Jeffrey Jordan. Sua Altezza, grazie. La bellezza e spettacolarità del gesto tecnico ed atletico, uniti ad una mentalità vincente se ce n’è una, ad una esplosività difficilmente spiegabile a parole e ad una padronanza totale dei propri mezzi hanno avuto, su molti adoranti discepoli, lo stesso effetto percepito da Dante al cospetto di Nostro Signore: ineffabilità. D’altronde, un paragone (per assurdo) tra Dio e il numero 23 fu anche azzardato, ben prima del doppio three-peat, da tale Larry Joe Bird da French Lick, Indiana, altro personaggio che tra fine anni ’70 ed inizio anni ’90, in concomitanza con il nemico-amico Earvin “Magic” Johnson ed un “Dottore” di stanza a Philadelphia, Julius Erving, vergò indimenticabili pagine cestistiche che proiettarono definitivamente il basket e in particolar modo
I tempi, come le persone, hanno però continuato inesorabilmente a cambiare (i grandi classici avrebbero parlato di caducità del tempo), lasciandosi dietro un retrogusto di amaro che tuttavia, molto spesso, una ventata di freschezza è fortunatamente in grado subito di affievolire. E “Golia” (intesa come caramella balsamica) della situazione è stata, a partire dall’esatta metà dei ’90, una filiforme ala di 211 benedetti centimetri proveniente da Mauldin, South Carolina, la quale raggiunse gli splendidi paesaggi del Minnesota direttamente dalla Farragut Career Academy High School del quartiere di South Lawndale, Chicago, segnando l’avvento di una nuova era: Kevin Garnett. La realtà dei fatti afferma comunque che non è stato l’attuale campione Nba con i Boston Celtics il primo giocatore ad aver sviato il college, ma furono bensì tra il 1974 e il 1975, Bill Willoughby (un journeyman che fu scelto dagli Atlanta Hawks), Moses Eugene Malone (uno dei centri più dominanti della storia di questo meraviglioso sport ed MVP della finale vinta con Philadelphia nel 1983) e l’ex Sixers ed Auxilium Torino Darryl Dawkins, istrione del parquet cui si deve l’innovazione forzata dei canestri sganciabili in seguito al continuo martirio di tabelloni prodotto da poderose e variopinte (soprattutto “nominalmente”) schiacciate. Altri tempi, sì, ma che tempi!, in cui la serie A nella “mia” Torino era una realtà dovuta e meritata, al confronto di un oggi murato dove gli spiragli di grande pallacanestro passano per fori tanto minuscoli da parere immutabili.
Poco prima dell’esordio di KG, soprannominato “The Revolution” non a caso, aveva però fatto il suo ingresso nella Lega, uno tra i centri più dominanti “ever”, (per ora) ultimo erede naturale di quella catena generazionale che ebbe in George Mikan (degli allora Minneapolis Lakers) il degno capostipite, seguito poi dai già citati Russell, Chamberlain e Abdul-Jabbar (con la possibilità di inserire anche Hakeem Olajuwon, David Robinson e Patrick Ewing, i quali non avevano però nello strapotere fisico il principale “strumento” di dominio): si parla ovviamente di Mr. Shaquille O’Neal.
La supremazia applicata ai 28 X
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