domenica 23 agosto 2009

Best Friends Capitolo 1





CAPITOLO I

Icone, idoli, miti, leggende. Ognuno ha avuto il proprio modello, la suprema fonte d’ispirazione e guida, magari anche solo inconsciamente, dei propri intenti. Ebbene, spasimando per quello sport legato al tiro di una palla in un cesto, cui un professore di educazione fisica canadese, poi naturalizzato americano, Dr. James Naismith, diede i primi natali sotto il nome di “BASKETBALL” , non si può non essere stati stregati anche solo una volta da quell’ottava meraviglia del mondo conosciuto che fu Michael Jeffrey Jordan. Sua Altezza, grazie. La bellezza e spettacolarità del gesto tecnico ed atletico, uniti ad una mentalità vincente se ce n’è una, ad una esplosività difficilmente spiegabile a parole e ad una padronanza totale dei propri mezzi hanno avuto, su molti adoranti discepoli, lo stesso effetto percepito da Dante al cospetto di Nostro Signore: ineffabilità. D’altronde, un paragone (per assurdo) tra Dio e il numero 23 fu anche azzardato, ben prima del doppio three-peat, da tale Larry Joe Bird da French Lick, Indiana, altro personaggio che tra fine anni ’70 ed inizio anni ’90, in concomitanza con il nemico-amico Earvin “Magic” Johnson ed un “Dottore” di stanza a Philadelphia, Julius Erving, vergò indimenticabili pagine cestistiche che proiettarono definitivamente il basket e in particolar modo la Nba, su di un altro pianeta. Definitivamente perché, a dire il vero, un paio di apripista avevano anche fatto la loro comparsa sui nostri teleschermi. Tra questi, in ordine sparso, è obbligatorio ricordare Bill Russell (più anelli di campione che dita ed un irripetibile impatto difensivo sulle partite), Oscar Robertson (colui che una tripla doppia non osò mai negarsela), Willis Reed & Walt Frazier (gli eroi dei due titoli Knicks del ’71 e ’73), “Pistol” Pete Maravich (meraviglioso prestigiatore del parquet che sostituì il cilindro magico con la palla a spicchi), Earl “The Pearl” Monroe (pura “poetry in motion”), Jerry West (Mr.Logo, della Nba naturalmente) ed Elgin Baylor, ma soprattutto due cui fu la Lega ad essersi dovuta adeguare e non viceversa: Wilt Chamberlain e Kareem Abdul-Jabbar. Il primo ha riscritto ogni record statistico individuale, sverginando pure una irraggiungibile (per i comuni mortali) quota 100 ai punti segnati in singola gara, senza però mai ottenere il giusto corrispettivo in anelli che la più devastante macchina cestistica di sempre avrebbe probabilmente meritato; il secondo è invece, più semplicemente, il miglior realizzatore ogni epoca della National Basketball Association che lo vide dominare inizialmente sotto il nome di Lewis Alcindor (titolo con “The Big O” a Milwaukee) e cui nemmeno la conversione all’Islam impedì di massacrare gli avversari a suon di Sky Hook (il celeberrimo gancio cielo) e punti (abbondando oltre i 38.000). Altri anni rispetto a quelli contemporanei, altra epoca in cui il college basketball era il principale, anzi unico, serbatoio per i Pro ed il draft sforava alla grande oltre il deca di giri, così concedendo ai vari GM Nba libero sfogo per una vena creativa impagabile nelle scelte.

I tempi, come le persone, hanno però continuato inesorabilmente a cambiare (i grandi classici avrebbero parlato di caducità del tempo), lasciandosi dietro un retrogusto di amaro che tuttavia, molto spesso, una ventata di freschezza è fortunatamente in grado subito di affievolire. E “Golia” (intesa come caramella balsamica) della situazione è stata, a partire dall’esatta metà dei ’90, una filiforme ala di 211 benedetti centimetri proveniente da Mauldin, South Carolina, la quale raggiunse gli splendidi paesaggi del Minnesota direttamente dalla Farragut Career Academy High School del quartiere di South Lawndale, Chicago, segnando l’avvento di una nuova era: Kevin Garnett. La realtà dei fatti afferma comunque che non è stato l’attuale campione Nba con i Boston Celtics il primo giocatore ad aver sviato il college, ma furono bensì tra il 1974 e il 1975, Bill Willoughby (un journeyman che fu scelto dagli Atlanta Hawks), Moses Eugene Malone (uno dei centri più dominanti della storia di questo meraviglioso sport ed MVP della finale vinta con Philadelphia nel 1983) e l’ex Sixers ed Auxilium Torino Darryl Dawkins, istrione del parquet cui si deve l’innovazione forzata dei canestri sganciabili in seguito al continuo martirio di tabelloni prodotto da poderose e variopinte (soprattutto “nominalmente”) schiacciate. Altri tempi, sì, ma che tempi!, in cui la serie A nella “mia” Torino era una realtà dovuta e meritata, al confronto di un oggi murato dove gli spiragli di grande pallacanestro passano per fori tanto minuscoli da parere immutabili.

Poco prima dell’esordio di KG, soprannominato “The Revolution” non a caso, aveva però fatto il suo ingresso nella Lega, uno tra i centri più dominanti “ever”, (per ora) ultimo erede naturale di quella catena generazionale che ebbe in George Mikan (degli allora Minneapolis Lakers) il degno capostipite, seguito poi dai già citati Russell, Chamberlain e Abdul-Jabbar (con la possibilità di inserire anche Hakeem Olajuwon, David Robinson e Patrick Ewing, i quali non avevano però nello strapotere fisico il principale “strumento” di dominio): si parla ovviamente di Mr. Shaquille O’Neal.

La supremazia applicata ai 28 X 15 metri del natio di Newark (New Jersey), è sempre stata seconda solo alla contagiante simpatia di cui madre natura gli ha fatto gentile concessione: indimenticabile la suoneria “anti-Divac” composta dopo la vittoria nella finale di Western Conference del 2002 proprio contro la Sacramento del centro serbo o il jingle rap improvvisato circa sei mesi prima in risposta alle critiche di Bill Walton sul suo eccessivo peso corporeo (concluso con “I’ll back Bill Walton down and he’ll start crying like Mutombo”). I Playoff della stagione 2000/2001, quella centrale all’interno del “back-to-back…-to-back” losangelino, sono stati il pass per accedere alla ristretta cerchia, od Olimpo che dir si voglia, di cui sopra: 16 “doppie vu”, una sola sconfitta (combinata dal miglior Allen Iverson in carriera, un altro che la nomea di idolo se la merita ogni sera tra ottobre e giugno) ed un’onnipotenza assoluta (30 e 15 abbondantissimi di media) che solo Wilt “The Stilt” ed M.J. furono capaci di mostrare agli occhi del resto dell’umanità. Umanità, appunto.

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