lunedì 7 settembre 2009

Alphonso Ford's Story I° Parte




“Alcuni uccelli non sono fatti per la gabbia, questa è la verità. Sono nati liberi e liberi devono essere … e quando volano via ti si riempie il cuore di gioia perché sai che nessuno avrebbe mai dovuto rinchiuderli” [dal film LE ALI DELLA LIBERTA‘ - The Shawshank Redemption]


Chi pronuncia queste parole è uno dei più grandi attori delle ultime quattro/cinque decadi, Morgan Freeman, per l’occasione vestito coi panni del carcerato nella prigione di Shawshank, Ellis Boyd Redding, per tutti “Red“. Nella pellicola, la metafora riassume sostanzialmente l’intera trama riferendosi direttamente al protagonista Tim Robbins, alias Andy Dufresne, innocente, oppresso dal sistema ma infine vincitore, perché lui è uno di quegli “uccelli”. “Free at last” sentenzierebbe Tupac Shakur. Freeman (mai cognome fu più azzeccato in rapporto alla citazione), che sotto la regia di Frank Darabont spara pillole di verità assoluta, soprattutto in versione voce narrante, è originario di Memphis ma durante la giovinezza visse abbastanza a lungo in una cittadina di nome Greenwood che anni dopo regalerà al basket europeo una brillante ed indimenticabile perla nera di nome Alphonso Ford. Ecco, lui non era fatto per questa “gabbia“, lo posso garantire.


Il lascito che Ford ha concesso a tifosi ed appassionati prima di prendere la sua strada, sta tutto in quei brevi ma folgoranti decimi di secondo che trascorrevano dal rilascio della palla a spicchi fino allo “swish” semi – automatico con cui si concludeva la parabola della stessa. Il tempo di un respiro ma goduto in ogni sua molecola d’ossigeno. La grandezza di “Fonzie” non era dovuta esclusivamente alle mirabili doti da bombardiere, anzi. Ogni movimento era impregnato della sua signorilità e classe, di quell’aura da baronetto creata forse non casualmente dai baffetti che pareva riuscissero a raddoppiare l’intensità di ciascun sorriso.


Proprio il suo riso riusciva magicamente a mescolarsi poi con un fisico da body builder oppure, visto il cognome, da “Ford Mustang”: dinamicità, eleganza, possenza e potenza. Un cocktail raro in una guardia di 192 centimetri (anche se dal vivo, una manciata erano abbondantemente estraibili) per quasi 100 kg, la cui sintesi estrema stava nell’ammorbante delicatezza del tocco: come la “buttava” dentro Alphonso erano in pochi a permetterselo. Uno spartito variegato ed infinito, dalle triple alle penetrazioni, dall’arresto e tiro al gioco in post basso, fino all’amica riga di fondo, con la sconquassante massa muscolare che faceva il resto. L’Nba l’aveva scartato proprio per le sue caratteristiche fisiche ed atletiche: allora grazie, perché altrimenti non l’avremmo mai goduto così a fondo.


E’ il 31 ottobre 1971 quando tutto ha avuto inizio. Le radici di Alphonso Gene Ford si situano per l’appunto a Greenwood nel “Magnolia State”, il Mississippi, a metà della strada che congiunge Greenville (dove il Mississippi, fiume stavolta, si mostra come il frutto coreografico e arzigogolato del genio di qualche artista e dal cui delta gli abitanti dell’area prendono il soprannome di “deltans”) con Starkville, ad est della quale si staglia il campus di Mississippi State University (che al mondo del basket ha donato soprattutto Jeff Malone, 12 anni di vita spesi in doppia cifra abbondantissima tra Washington, Utah e Phila; Erick Dampier, attuale centro dei Dallas Mavericks ed ex non proprio indimenticabile di Golden State; e il problematico ma unico Dontae’ “cavallo pazzo” Jones, che fu il simbolo della promozione in serie A della Pompea Napoli nel 2001/2002, salvo risultare positivo all’assunzione di metaboliti di Thc (cannabis) l’anno successivo, in seguito ad una gara di campionato archiviata con 27 autentiche perle a referto contro la Scavolini Pesaro, la società che nel giro di due anni materializzerà l’arrivo di Ford nelle Marche). Un giorno non ben precisato della sua infanzia, Al si ritrovò faccia a faccia con un pallone da basket e capì fin da subito che l’amore a prima vista esiste ed è un qualcosa di trascinante, una forza misteriosa che dopo averti catturato non ti abbandona più. Il pupo apprende in fretta e allo sviluppo fisico, accompagna anche una notevole crescita tecnica con un “surplus” non da tutti: la percezione costante che in quel cesto di “bocce” se ne possono infilare realmente due. Senza troppi soldi a disposizione ma senza nemmeno particolari pensieri per la testa, il giochino si tramuta ogni giorno di più in una ragione di vita.


Siamo a metà degli anni 80’ ed è giunta l’ora, per il giovane figlio di Albert e Matilda Ford, di scegliere l’High School cui prestare i propri servigi scolastici e sportivi: facile, si va alla locale Amanda Elzy HS, distante non più di un miglio dalla verdeggiante Main Street, la via centrale di Greenwood. Tra le varie ragioni ne sbuca anche una cestistica.


Nella sezione Basketball del liceo è infatti da poco annoverato il nome di Gerald Damon Glass, cui il tempo affibierà l’appellativo di “World Class”: guardia dalle spiccate doti realizzative, Gerald si apprestava (proprio nel 1985) ad entrare alla Delta State University, dopo aver chiuso alla grande la sua formazione liceale; discreta la prima annata , da cineteca quella successiva, conclusa oltre i 26 di media ad allacciata di scarpe, il che gli vale un biglietto di sola andata per la University of Mississippi, “Ole Miss” per tutti. La grandine non smette di venire giù ed anzi, con la casacca dei “Rebels”, Double G entra a pieno titolo nella storia. Il 3 marzo 1989, al Tad Smith Coliseum, si sfidano Ole Miss e Louisiana State University, comandata dalla super stella Chris Jackson, un autentico manuale vivente del gioco affetto dalla sindrome di Tourette che anni dopo incanterà anche Roseto e l’Italia intera sotto il nome di Mahmoud Abdul – Rauf. Sarà stata l’acqua o l’aria ma quella divenne la sera giusta: i presenti all’incontro infatti si poterono schiodare dalle seggiole solo dopo 45 intensissimi minuti, che videro Glass & co. spuntarla per 113 – 112 senza la benché minima cura delle coronarie dei suddetti astanti. Direte – “non è poi così strano!”. Ok, allora aggiungiamo che in QUELLA serata “World Class Glass” sverginò 53 volte il ferro, mentre “Chris ma tra un po’ Mahmoud” esplose (e rispose) con altri 55, sparati con addosso ancora la nomea di freshman… Tripudio, leggenda e record infranti “in the perfect night”. Geraldo in seguito verrà scelto al n. 20 dello stesso draft di Toni Kukoc e Stefano Rusconi da Minnesota; dopo sette stagioni di gregariato Nba, giungerà perfino una chiamata italiana da parte della Jcoplastic Napoli di serie A2: anno di grazia 1994/95 ed anche allora si andò di beneficiata ogni singola sera, con le perle del doppio 38 rifilato alla Polti Cantù e alla Juve Caserta, più i 39 sparati al Menestrello Cervia di un giovanissimo Scarone, Nino Pellacani, Larry Middleton e Zanus Fortes. Ah già, era anche l’anno in cui Carlton Myers distrusse con 87 punti la Libertas Udine…


Chiusa parentesi, Glass (che oggi allena proprio la squadra della sua ex HS) era tuttavia già una figura modello all’epoca di Amanda Elzy per i giovani di Greenwood e tra questi, come detto, non tardò ad arrivare il suo successore nella persona e nel sorriso contagioso del “nostro” Alphonso. Il playground, il canestro all’aperto l’avevano cresciuto indicandogli la via, ora però aveva inizio un altro mondo. A vederlo in viso Al sembra più maturo degli altri compagni e cosi anche il suo gioco, già di un altro livello: tutto gli viene facile e al liceo “starreggia” alla grande. Cresce specialmente sul piano offensivo, affinando il tiro, la velocità nell’ 1vs1 e la capacità di chiudere nel traffico, così qualcuno inizia a mettere il nome “Ford, Alphonso Gene” sul taccuino. Arriva l’anno da senior e perciò anche il tempo di prendere una nuova decisione. In zona era personaggio di culto tale Lafayette Stribling, rinomato coach/educatore della Mississippi Valley State University e amante della filosofia per cui “tre son meglio di due sempre e comunque”: in sostanza più si segna, più ci si diverte e meglio si sta. Alphonso e famiglia apprezzano: la SWAC (Southwestern Athletic Conference) in cui giocherà il figliol prodigo è discretamente competitiva anche se non eccelsa, il college è notoriamente una “black university” e la vicinanza del campus a Greenwood (circa 8 miglia) non guasta. Fatta. Alphonso sale al piano successivo e coach “Strib” a momenti crederà anche di aver pescato un moderno Pete Maravich, non per la creatività e l’estro ma per quella perizia nel mettere punti a referto che permise al compianto “Pistol Pete” di chiudere a 44 di media un’intera stagione collegiale. Si dice che negli Stati Uniti fino ai 21 anni puoi fare poco o nulla, ad ogni modo il diciottenne “Fonzie” asfalta i diretti avversari con facilità disarmante e da freshman ne mette 29.9 ad allacciata di scarpe, comprese 104 bombe nelle 27 gare disputate (quarto di tutti i tempi nella speciale classifica capitanata, dallo scorso anno, da Stephen Curry di Davidson University) e 51 punti in febbraio contro Texas Southern. E’ un novellino ma ognuno lo segue, perché leader si nasce. Il secondo giro di roulette fa spavento: 32.7 punti di media in 28 uscite serali (secondo in tutta la nazione dietro Bo Kimble di Loyola Marymount, compagno ed amico fraterno di Hank Gathers, uno dei più grandi prospetti dell’epoca morto sul campo circa tre settimane dopo l’exploit di Ford vs TSU) e qualsiasi record dei Delta Devils, riguardante tiri o punti, disintegrato. Ora anche la Nba butta un occhio su quel ragazzotto del Mississippi dalle poche parole ma dal grande sorriso. Le successive due stagioni, poi, il team cresce di livello e pur abbassando le sue medie realizzative (rispettivamente 27.5 e 26), Al riesce a vincere la SWAC: tutto ciò che era in grado di fare l’aveva portato a compimento e i 3165 punti accumulati diventano il quarto miglior risultato nella storia della Division I Ncaa. Nella “Senior Night” si congeda non solo da coach Stribling e tifosi ma anche da casa sua, perché ormai il volo è iniziato.


Con credenziali di simile portata, gli viene riservato un posto al draft Nba del 30 giugno 1993, lo stesso di Marcelo Nicola e di C-Webb: a sceglierlo al secondo giro sono i Philadelphia 76ers, con la pick n. 32. Qualcosa non quadra fin dal training camp e dopo spiccioli di partite, il 3 novembre viene rilasciato. L’anno nuovo, che l’ha visto scollinare oltre i 22 con la casacca dei non indimenticabili Tri-City Chinook della Cba, gli regala un’ulteriore chance, stavolta ad “Emerald City”: la sorte però non accenna a cambiare nemmeno a Seattle e lo stesso accadrà prima a Los Angeles, sponda Clippers, poi nuovamente nella Città dell’Amore Fraterno, così l’unica valvola di sfogo resta la Cba, che peraltro domina con nonchalance. Tra una balla e l’altra sono comunque trascorsi due anni dall’ingresso di Al nella Lega e a quanto pare, quella nostalgia che spesso si dice attanagli i giocatori provenienti dalle lande del Mississippi sembra aver colpito anche il giovane Ford. A volte tuttavia, semplicemente non comprendiamo appieno con chi abbiamo a che fare: cuore e orgoglio fanno rima con Alphonso. Qualche giorno passato a Greenwood, il tempo di riflettere e prendere fiato, poi: “fai quello che devi” gli hanno detto i genitori. Preparate le valigie Al riprende il suo volo, direzione Spagna, dove trova un ingaggio all’ SD Peña Huesca (in Aragona), squadra che fu anche del grande Rimas Kurtinaitis. In Europa, dove al carattere e ai sentimenti di una persona viene data maggiore importanza rispetto al “business’ world” americano, Alphonso Ford si dimostra per quello che è veramente: un ragazzo semplice, perennemente disponibile ed educato, mai altezzoso e con quella peculiarità del saper giocare a basket divinamente che in fondo unisce tutto e tutti. Come biglietto da visita infatti manda in archivio sui 25 punti ad uscita; ciononostante, i radar dei migliori club del continente non si accorgono di nulla e così “Fonzie” è costretto a compiere un altro viaggio “minore” che lo conduce in Grecia, al Papagou inizialmente e allo Sporting Atene poi. Cambiano i colori delle canotte ma non quello dello Spalding e per Alphonso riempire le caselline dei referti rimane un automatismo: al primo impatto è subito il top scorer in terra ellenica. Il vento, che lo ha sbalzato di qua e di là come fosse un neo – Ulisse, sembra improvvisamente cambiare i suoi progetti e tranquillizzarsi proprio nelle vicinanze della dimora del suo mitico padrone, il dio Eolo. Alphonso compie il mestiere con la consueta classe e finalmente il Vecchio Continente scopre, in una delle sue miniere più prolifiche, una perla nera forte come un toro ma aggraziata e risoluta come una pantera che a più di 10000 km dal nido natale riassapora l’aria di casa.


E’ il 1999 quando anch’io sento per la prima volta parlare di Ford, acquistato dal Peristeri, società ateniese in netta ascesa nel panorama cestistico nazionale e non. La classica news breve su Superbasket basta per inserire un altro nome americano nell’archivio mnemonico ma, se molti sono cancellati dal tempo, alcuni restano “senza fine” come direbbe Gino Paoli. Al ci mette all’incirca un giorno per entrare nel cuore dei tifosi gialloblu senza mai più uscirne; il Peristeri mi sta simpatico a pelle vista anche la combinazione di colori identica a quella dell’Auxilium Torino (casa mia sostanzialmente) e Ford, che sceglie il 10 come numero di maglia, quello dei fantasisti di calcio, quello di Zvonimir Boban nel mio Milan, lo ammiro pure dal mero punto di vista dell’amante di statistiche quale sono.

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