
Passarono sei mesi, altro incidente d’auto e altro lutto che sconvolse la Lega del commissioner David Stern. Ogni tanto la giustizia divina tende ad avere atteggiamenti perlomeno incomprensibili, altrimenti non si spiegherebbe come Malik Sealy, guardia/ala dei Minnesota Timberwolves, sia potuto morire in una collisione causata dal guidatore ubriaco di un “pickup truck”, rimasto al contrario vivo, con solo qualche ferita alla testa (stessa positiva sorte toccata al malcapitato automobilista che vide piombarsi addosso Bobby Phills).
Figlio di Sidney, una guardia del corpo di Malcolm X (o anche conosciuto come El-Hajj Malik El-Shabazz, da cui è stato preso il nome per il bimbo di casa Sealy), e Ann, nato e cresciuto nel Bronx, col background tipico di un rapper della East Coast, ma con una personalità ed un cuore che hanno fatto costantemente rima con generosità, bontà ed abbondanza: al pari di Bobby infatti, Malik ha sempre anteposto gli altri al proprio “io”, mettendo davanti a tutto la famiglia, il gruppo, pensando prima alla crescita di un giovanissimo Kevin Garnett che alla sua decina di punti serale o al contratto più o meno milionario (e proprio con l’ultimo firmato decise di rimanere ancora a Minneapolis per amore verso i compagni di squadra e la città). Il numero 2 posto sul retro della “jersey” racchiude anche questo. K.G. aveva dato una festa per il suo compleanno quella sera del 20 maggio 2000 e intorno alle 3.30 di mattina Malik stava facendo ritorno verso le braccia della moglie Lisa e il dolce respiro del figlioletto di tre anni, Malik “Remi” Remington, cullato dal letto. “The Big Ticket” l’aveva ringraziato per l’ennesima volta, non solo per il regalo o la sua presenza concreta al party, ma per tutto quello che rappresentava, al pari di Sam Mitchell [1]: un amico sincero e un padre come non l’aveva mai avuto, oltre che un idolo cestistico dei suoi anni a Mauldin, South Carolina. Quindi si lasciò downtown alle spalle. La cintura non allacciata, il sedile piegato a circa 130° in pieno “american-black style”, il suo Range Rover era privo di Air Bag, chi va a pensare che qualcuno possa prendere quel tratto della “Highway 100” di St. Louis Park, Minnesota, con annessi lavori nella seconda corsia, in contromano? No, no, impossibile. No way.
Un uomo troppo forte Malik, uno spirito creativo non secondario che lo aveva portato ad incidere la canzone rap “Lost in the Sauce” (contenuta all’interno dell’album “Basketball’s Best - Kept Secret” composto insieme ad altri giocatori Nba quali Shaquille O’Neal e Gary Payton), a creare una linea di abbigliamento, “Malik Sealy XXI Inc.”, e anche a recitare in diversi telefilm (ex. “The Sentinel”, trasmesso per anni dalla Rai in Italia) oltre che in una pellicola (“Eddie”) al fianco di “Sister Act”, al secolo Whoopi Goldberg; il Bronx vero, non quello dei film, come palestra di vita a partire dal 1 febbraio 1970; la crescita fino a raggiungere i due metri di altezza, quattro stagioni sensazionali alla St. John’s University, la scelta n.12 nel draft del 1992 da parte dei Pacers e gli ultimi play off, conclusisi pochi giorni prima contro la Portland di ‘Sheed [2] e Pippen [3], trascorsi a oltre 12 punti in 30 minuti di utilizzo medio, lui che in fondo resta soprattutto un grande difensore; cinque giorni dopo la scomparsa di Bobby Phills aveva messo a segno un buzzer-beater di tabella a tempo quasi scaduto proprio versus Indiana, replicando il canestro sulla sirena realizzato in dicembre contro Orlando. In quella stagione a cavallo tra i due millenni, inoltre, Malik non aveva saltato nemmeno una gara. No, no, non può finire così! Siamo solo nel secondo quarto della sua esistenza. Poi..
Ricordo un articolo sulla “Gazza in rosa” nel tragitto verso la scuola. “Non ci credo”. Souksangouane Phengsene: questo il nome del folle guidatore ubriaco. Ho solo più pensato: “bastardo”. La sentenza è stata quattro anni da scontare in gattabuia e gliene hanno pure abbuonato uno. Era già stato fermato nel 1997 a Des Moines per guida in stato di ubriachezza; l’avrebbero arrestato altre due volte in seguito a quel maledetto giorno: l’ultima condanna ne vale otto dentro. “Che giustizia è? Siamo matti? Questo avrebbe potuto e in futuro potrà ancora uccidere qualcuno…pazzesco…”. Il mondo d’oggi va così; male ma così. Malik però, sono sicuro che l’abbia già perdonato da lassù. Lui che amava stare tra i ragazzi e spiegare il valore dello sport, l’importanza della vita, l’amore verso il prossimo. La sua tomba viene posta nel “Ferncliff Cemetery and Mausoleum”, che diventa automaticamente il suo playground personale: lì è stato cremato quel visionario di John Lennon; lì si ergono perennemente orgogliosi i resti di Malcolm X, l’idolo della famiglia Sealy. In classe medito e stento ancora a crederci nonostante siano già trascorse più di 24 ore dalla tragedia. A casa accendo tele e decoder: la maglia #2 issata verso il cielo al Target Center, le lacrime e la voce singhiozzante dei suoi amici, la scritta indelebile “2Malik” sulle scarpe di Garnett, e quella ancora più significativa, poco tempo dopo, sul corpo dello stesso K.G e dell’altro “figlio” Joe Smith [4]: “Only God can Judge me. Rest in Peace MS2”. Come per BP, la musica ha però alzato il suo volume dal profondo. Un verso della lirica di Malik dice, “life’s just one big jumpshot”… tranquillo Malik, vivrai per sempre nel meraviglioso fruscìo della retina e nel cuore di chi ti ha visto anche solo una volta ridere in tutta la tua genuinità.
Note:
1- Il primo allenatore del “Mago” Bargnani nella Nba. A memoria anche il più criticato e vituperato vincitore del premio di “Coach of the Year” nella storia della Lega: correva la stagione 2006/2007, i Raptors avevano appena vinto il loro primo titolo divisionale e già i “contro” a tratti sembravano superare i “pro”. Poi arrivò un quadriennale messo subito nero su bianco; una stagione più altalenante del previsto, per usare un eufemismo; un primo turno di playoff non indimenticabile salutato in anticipo per mancanza di kryptonite da opporre a “Superman”, al secolo Dwight Howard; e infine 17 gare della nuova Regular Season chiuse con record negativo. I bagagli glieli hanno recapitati la sera stessa del’ultima debacle.
2- Rasheed Wallace. Difficile non esserne a conoscenza. Un “tecnico”, inteso come punizione arbitrale, perennemente pronto ad accadere ma anche un talento fuori portata per il 99% dei bipedi terrestri. Unico nel suo genere e ineguagliabile. Come dicono di là: “Sheed happens”…
3- Fa Scottie di nome, ha fatto la spalla di Michael Jordan nei sei titoli vinti con Chicago. Il miglior secondo violino “ever” ma con capacità (difensive + offensive) da prim’attore. Frenabile solo dall’emicrania. Merita un bel posticino nel tempio di Springfield…
4- Rinomato per due cose: l’essere stato una delle meno entusiasmanti prime scelte assolute al draft di sempre (intendiamoci: Kwame Brown e Michael Olowokandi sono irraggiungibili) e l’essere stato al centro del vergognoso “caso Minnesota Timberwolves”, coi quali si accordò per firmare un contratto ad un valore molto più basso di quello di mercato, con in cambio la promessa di futuri pagamenti milionari al momento dell’estensione dello stesso accordo, in modo da permettere alla franchigia altri acquisti di rilievo a costi altrimenti impossibili da sostenere visto il limite posto dal “salary cap”. Ciononostante è rimasto un giocatore rispettato nei circoli Nba e da qualche stagione a questa parte anche uno dei più apprezzati veterani della Lega. Due dritte per sistemare la situazione gliele aveva date anche il buon Malik…
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