domenica 20 dicembre 2009

Bobby Ray Phills





20 dicembre 1969. Baton Rouge, profonda Louisiana, profondo Sud degli States: lì le giornate estive sono umide ed afose, a volte appaiono interminabili; i rumori della vegetazione al di fuori dei centri urbani rischiano di essere alla lunga insopportabili ma con l’abitudine si tramutano nella tua colonna sonora giornaliera; il clima forgia il carattere dei nativi di queste zone. La pronuncia allungata, l’andatura lenta, quasi rilassata o “molleggiata”, l’etica lavorativa, l’assaporare appieno le giornate come “modus vivendi”, il gospel, la palla da football come oggetto di culto. Cinque mesi prima, più esattamente il 21 luglio 1969, un tale di nome Armstrong, in compagnia dei colleghi Aldrin e Collins, scelse come nuova meta turistica la Luna. Veicolo di trasporto: shuttle “Apollo 11”. Agenzia di viaggio: NASA. Benvenuti ufficialmente nella nuova era.


12 gennaio 2000. Charlotte, North Carolina, lo Stato di Michael (ce n’è uno e basta…). “The Queen City”, al tempo dimora della franchigia Nba degli Hornets, è il centro finanziario, economico e punto di riferimento totale per lo Stato che comprende anche la “Tobacco Road”, campo di battaglia per l’eterna rivalità tra UNC e Duke e area dalla cui atmosfera si potrebbe estrarre l’essenza più pura del basket. In zona sono ammesse poche ciance: lavoro, maniche alzate e battismo vengono prima di tutto.


Tra queste due date, questi due luoghi è intercorsa la vita di Bobby Ray Phills II, un figlio come tanti del Mississippi, ma anche ragazzo d’oro che, partendo dalla non memorabile Southern University di Baton Rouge (28 ad allacciata di scarpe nella stagione da senior), tradusse in realtà un sogno chiamato Nba. Per completarlo però si rese necessaria un’ulteriore gavetta visto che, dopo la scelta al numero 45 del Draft 1991 ed una stagione vissuta da spettatore non pagante sulla panchina di Milwaukee, dovette ripiegare sui parchi di Sioux Falls, in CBA. Il martirio durò per fortuna lo spazio di qualche mese, fin quando non fu Cleveland, convinta dai 23 punti in dotazione a serata, a riportarlo nella Lega “cugina” di maggior prestigio. Sei anni ad affinare il mestiere in Ohio (intorno ai 10 punti di media), a cui ne seguirono tre da Hornet al fianco di gente come Glen Rice (1), Dell Curry (2), Tony Delk (3), Vlade Divac (4), Tyrone “Muggsy” Bogues (5) e David Wesley (6). Un percorso simile di raggiungimento dell’Nba lo compì Avery Johnson, natìo di New Orleans (sempre nello stato che prese il nome dal “Re Sole” Louis XIV), che dopo gli eccellenti anni alla Southern fu tuttavia trascurato da ogni scout e general manager: “undrafted” dunque, ma in grado di conquistarsi le luci della ribalta vincendo prima il titolo al fianco di Tim Duncan nel 1999 (finale contro i Knicks di “Spree” e Allan Houston) e poi aggiudicandosi giusto qualche anno dopo il premio di “Coach of the Year” al timone dei Dallas Mavs.


Ugualmente luci, ma non certo portatrici di gioia, furono invece quelle che Bobby si ritrovò di fronte nella mattinata del 12 gennaio dell’anno di apertura al nuovo Millennio: appartenevano ad un’auto, su West Tyvola Road nei pressi del Charlotte Coliseum (pochi chilometri a sud di downtown sostanzialmente), contro cui la Porsche 993 Cabriolet di BP si schiantò tragicamente dopo aver perso il controllo del mezzo. Il lavoro eziologico della polizia locale portò alla luce che Bobby stava guidando, con un limite di 45 miglia orarie (circa 70 km/h), oltre le 100 mph, 75 secondo altre fonti, per raggiungere la propria moglie Kendall, fin quando uno sbalzo della vettura non l’ha gettato in mezzo alle fauci del tragico destino. Alcune macchine più avanti c’era David Wesley, il compagno ed amico insieme a cui avrebbe dovuto recarsi all’appuntamento, considerata la presenza anche della moglie di quest’ultimo, il quale fu in seguito incriminato per guida incauta e spericolata, tanto che si pensò addirittura ad una gara di velocità tra i due, e la cui patente al momento risultava sospesa. Wesley comunque non realizzò immediatamente ciò che era appena avvenuto. Abbassato il volume della musica diede un’occhiata allo specchietto retrovisore, poi un’inchiodata: il viaggio mentale di Dante all’inferno doveva essere stato più piacevole. Coach Paul Silas, avvisato dell’accaduto, si recò sul posto del misfatto e vide la fiamma di Bobby spenta definitivamente tra le lamine accartocciate. A Wesley intanto sembrarono aver depredato lo spirito.


Due ore o poco più. Tanto ci volle per estrarre il corpo dalle macerie. Un fisico pittoresco (195 cm per 105 chili di soli muscoli) , tagliato su misura per i “tight end” della Nfl. Sul parquet era una guardia tiratrice dalla mano morbida (ruolo che si è costruito strada facendo a partire dalla Tuskegee High School, per la quale evoluiva in special modo da centro) e ottimo difensore (ben nota la risposta “Michael who?” alla domanda di un giornalista, che chiese se lui temesse affrontare Michael Jordan) , oltre che figura carismatica all’interno dello spogliatoio; al di fuori era invece uomo di grande intelligenza, devoto, altruista e disponibile (fondatore della “Bobby Phills Educational Awareness Foundation”, nel 1996, per l’aiuto di bambini meno fortunati), con un sorriso in grado di scioglierti l’anima, ma soprattutto padre di tre bimbi. Quella maledetta mattina però, il futuro oscurò le proprie carte e l’immagine di B.P. si sciolse nelle lacrime di chi lo amava. Il ritmo blando del ragazzo del Sud aveva aumentato le sue frequenze poco prima delle ultime note, ma la vera musica, quella che viene dal cuore, non muore mai e come direbbe Sean “P.Diddy” Combs: “I know you still living your life, after death” Bobby.



Note:


1- Superbo tiratore da (veramente) qualsiasi distanza e vincente sia a livello collegiale con Michigan, che al piano superiore con i Lakers di Kobe e Shaq. Se vi è mai capitato di giocare, prima del suo ritiro, ad uno dei vari “Nba Live” per Playstation o quant’altro allora avete capito con chi si è avuto a che fare…


2- Altro “shooter” balisticamente notevole (pure in ambito virtuale), il cui figlio Stephen, dopo aver creato maremoti in NCAA con Davidson University, esser diventato il protetto di “The King” e aver riscritto il record ogni epoca di bombe sparate, è finito all’irrazionale corte di Don Nelson @ Oakland. Un sincero in bocca al lupo.


3- “Tony Tiger”, o meglio noto come Tony Delk, sfoderò in maglia Suns anche una prestazione da 53 perle in 50’ contro suoi ex compagni di Sacramento. Nato a Covington, Tennessee, fu campione NCAA 1996 con la Kentucky di Pitino, che sconfisse la Syracuse University di Jim Boheim e John Wallace al termine di un torneo eccezionale in cui i Wildcats vinsero ogni gara di almeno sette punti (le prime quattro dai venti in su) e Tony fu eletto Most Outstanding Player (MVP sostanzialmente) della Final Four dopo i 24 che mandarono in archivio la stagione. L’Nba si è però rivelata più dura del previsto, vista la sua tendenza ad essere una guardia nel corpo di un play, e così il passo da possibile stella a gregario è stato breve. In seguito a tante difficoltà, è transitato poi dalle parti del Pireo, a domicilio del Panathinaikos con cui fece il grande Slam, anche se in maggio venne allontanato per problemi disciplinari e con la dirigenza. Il suo meglio (tra i Pro, of course) lo diede però proprio in quella fresca serata di gennaio del 2001, chiusa a 20/27 dal campo, senza nessun tentativo da oltre l’arco e facendo scendere più di una lacrimuccia a molti puristi del Gioco: “Impossible is nothing”.


4- Due mani all’europea che per un centro di quella stazza lì dovrebbero essere off-limits. Tra le varie peculiarità anche una lista di appellativi lunga quanto la sua lingua e la sua carriera. I più noti: “Marlboro Man”, per intuibilissimi motivi legati al consumo di sigarette, e “Flip-Flop Vlade”, perché gli anni passati nei pressi di Hollywood (L.A.) hanno lasciato significativi strascichi sul suo modo di giocare.


5- 160 centimetri di play tascabile per antonomasia. Insieme a Spud Webb ha riscritto le leggi di appartenenza alla Nba.


6- Grande amico di Bobby e più tardi capitano in quel di Charlotte. Finito quindi alla corte di LeBron James in Ohio, ha raggiunto in maglia Cavs la Finale Nba 2K7, poi persa vs gli Spurs di un fenomenale Ginobili, giocando sempre e comunque in memoria del suo “fratello” non di sangue.

Nessun commento:

Posta un commento